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Inps, cosa richiedono le pensioni flessibili alla Tito Boeri

Una premessa: sono totalmente d’accordo con la “puntura di spillo” di Giuliano Cazzola del 3 marzo secondo cui, a ragione dell’invecchiamento della popolazione (e di restare in pensione tra i 22 ed i 25 anni), saranno pochi coloro che chiederanno un pensionamento anticipato tale comunque da comportare una riduzione delle spettanze e delle prestazioni. Quindi, trovo davvero di lana caprina i commenti dei cosiddetti tecnici della Commissione Europea secondo cui la misura, se attuata, aggraverà la spesa pubblica almeno nel breve periodo (ma la ridurrebbe nel medio e lungo) facendo addirittura ‘saltare’ i conti dell’Italia.

Comunque, le dichiarazioni del Presidente dell’INPS, Tito Boeri, le aperture spesso fatte dal Ministro del Lavoro e degli Affari Sociali, Giuliano Poletti, e le richieste dei sindacati (soprattutto della CISL), in questo senso suggeriscono che si sta andando verso una previdenza pubblica ‘flessibile’, anche sotto il profilo legislativo ed operativo. Occorre sottolineare “pubblica” o “statale” perché gran parte della previdenza privata (i fondi pensione) ha già forti elementi di “flessibilità” in entrata. I fondi pensione di nuova generazione sono collegati, in larga misura, alla previdenza pubblica in uscita; quindi, sotto questo profilo, il loro futuro è legato a quello delle pensioni INPS.

La “flessibilità in uscita” è caratteristica dei maggiori Paesi Ocse, specialmente di quelli (come gli Usa) che hanno abolito “l’età legale” della quiescenza in seguito, sovente, a sentenze delle rispettive Corti Costituzionali che hanno ritenuto tale “età legale” una discriminazione contro gli anziani. Grazie questa sentenza ed al favore degli studenti, il Premio Nobel James Buchanan ha insegnato, alla George Mason University, regolarmente quattro corsi l’anno di economia (per la laurea specialistica) sino all’età di 92 anni e negli successivi ultimi due anni della sua vita teneva un seminario avanzato ogni due settimana per i dottorandi.

Nel primo decennio di questo secolo – periodo di grande fervore riformatore in materia previdenziale – ho collaborato a lavori della Banca mondiale, dell’Ocse ,del Banco americano per lo sviluppo e dell’Economist Intelligence Unit che in vario modo proponevano una previdenza pubblica o statale in cui:

a) le prestazioni fossero basate su un metodo di calcolo “contributivo figurativo” (sul tipo di quello iniziato nel 1995 in Italia e Svezia ed ora adottato da circa una quarantina di Stati nei cinque continenti)

b) con flessibilità in uscita per consentire di andare in pensione, entro certi limiti, quando si vuole e si può.

Con l’eccezione delle istituzioni europee, quasi tutte le organizzazioni internazionali prevedono “un’età normale” per la pensione (varia tra i 62 ed i 65 anni) con la facoltà di andare a riposo a partire da 55 anni. Ovviamente con una pensione inferiore a quella che si avrebbe all’’età normale’; ad esempio, andando in quiescenza a 55 anni si perde (per sempre) un terzo del trattamento; a 60 anni, invece il ‘taglio’ è circa il 15%.

Una riduzione lineare basato sul calcolo attuariale e l’aspettativa di vita è il metodo più semplice e più trasparente. Alcuni Stati (principalmente dell’Europa centrale ed orientale) hanno adottato meccanismi di prestiti per la pensione anticipata da rimborsare quando si avrà titolo a pensione piena. Sono abbastanza complessi e meno trasparenti delle riduzioni lineari.

Questi approcci, e le variazioni sul tema in vigore od in progetto, richiedono un sistema forte di fondi pensioni con cui integrare il trattamento previdenziale pubblico o statale. Ciò vuol dire fondi robusti, diversificati e competitivi, che non flettano alla prima tempesta finanziaria. Il Mefop (società del Tesoro preposta a questo scopo) sta facendo un ottimo lavoro anche di formazione. Il Ministero del lavoro e l’INPS, ci auguriamo, ne terranno conto.


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