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Gli inglesi sedotti dall’Unione europea dei capitali

Per la terza volta in poco più di un quindicennio gli inglesi dovranno decidere se e in che modo partecipare alla faticosa integrazione economica europea. Adesso che l’unione del mercato europeo dei capitali è diventata molto più che una possibilità, la Gran Bretagna dovrà scegliere innanzitutto se aderirvi, o se cavarsela col solito no grazie come hanno fatto con l’adesione all’Unione monetaria e (finora) con quella all’Unione bancaria.

L’esperienza e i proverbi suggeriscono che non c’è due senza tre. Figurarsi se gli isolani d’oltremanica hanno interesse a mischiarsi con l’eurotartaruga e la sua unione finanziaria.

Però, vedete, stavolta l’esca è appetitosa. Un mercato integrato dei capitali, per un piazza finanziaria come quella londinese, non è un’opportunità che si può prendere alla leggera.

E difatti la Bank of England ha dedicato alla CMU europea (capital market union) un pensoso approfondimento nella sua ultima Financial stability review, dove in coda viene analizzato quale potrebbe essere l’impatto della CMU sul mercato del Regno Unito.

Ricordo rapidamente che la Commissione europea ha di recente pubblicato il suo green paper sulla materia, lanciando una consultazione pubblica che durerà tre mesi, al termine della quale si dovrebbe arrivare a un testo pronto a iniziare il suo percorso di approvazione. L’obiettivo è arrivare al 2019 con una cornice normativa funzionante che disciplini la nuova unione finanziaria che, almeno nei propositi, dovrebbe favorire lo sviluppo e l’integrazione dei mercati dei capitali europei, e quindi migliorare le possibilità di finanziamento delle imprese dell’area, ancora troppo dipendenti dal credito bancario.

In teoria una siffatta unione dovrebbe consentire un’armonizzazione delle regole sottostanti ai mercati, talché per un emittente sarebbe del tutto indifferente lanciare un prodotto finanziario in Olanda piuttosto che in Germania, mentre un compratore potrebbe godere della stessa tutela e degli stessi diritti a prescindere dal suo stato di residenza. Ciò potrebbe condurre anche a una unificazione delle controparti centrali, almeno a livello regolamentare, e delle entità che custodiscono i titoli, fino a culminare in una disciplina comune di risoluzione. Tutte materie fino ad ora lasciate a livello nazionale.

In sostanza, come anche lo studio della BoE evidenzia, ciò dovrebbe servire a migliorare la condivisione dei rischi finanziari fra i paesi aderenti, e così, indirettamente, abbassare la volatilità dei consumi delle famiglie, che l’esperienza della crisi ha mostrato assai frammentata, e quindi favorire insieme la crescita e la stabilità finanziaria.

Da questo punto di vista, le conclusioni della Boe sono abbastanza pacifiche: seppure con tutti i se e i ma del caso, l’Unione del mercato dei capitali europei riveste diversi vantaggi per gli aderenti.

Ma per l’UK?

Qui il tema si fa più complicato. “In generale – scrive la BoE – la crescita economica e i benefici sul versante della stabilità della CMU si applicheranno a tutti gli stati membri dell’Ue, incluso il Regno Unito. Ma ci sono altre importanti considerazioni di stabilità finanziaria delle quali bisogna tenere conto visto che il Regno Unito ospita il più grande centro finanziario dell’Europa”.

Evidentemente anche l’UK beneficierebbe di una maggiore crescita e stabilità finanziaria aumentando la diversificazione e integrazione dei prodotti scambiati, nota la BoE. Tanto più che l’UK mostra una elevata volatilità dei consumi e un’eccessiva dipendenza dal settore bancario per il credito alle famiglie e alle imprese, connotandosi in ciò molto europea.

In più, proprio per la sua posizione sul mercato finanziario, il Regno Unito beneficierebbe non poco lato incassi derivanti dagli scambi sui servizi finanziari. Basti considerare che il surplus commerciale che l’UK spunta dai suoi scambi esteri correlati a questi servizi arriva a 20 miliardi di sterline nel settore delle assicurazione e dei servizi pensionistici e a quasi 40 per gli altri servizi finanziari, cui si sommano altri 15 miliardi di surplus per altri servizi collegati al business.

Tuttavia non è così pacifico che la Gran Bretagna avrebbe goduto di tali vantaggi se la CMU fosse stata operativa durante la crisi, quando la ricchezza del paese subì un pesante shock parzialmente compensato dalle politiche monetarie che provocarono un notevole deprezzamento della sterlina. Ma non è affatto detto che tale dimagrimento sarebbe stato minore, anzi la BoE lascia capire che sarebbe stato il contrario, se gli inglesi fossero stati maggiormente esposti verso l’Europa.

La stessa considerazione vale lato stabilità finanziaria.

Ma ciò che più di tutto lascia perplesso il regolatore inglese è l’idea che alla CMU debba corrispondere anche una unificazione della controparti centrali e delle central security depositories. “Non c’è un ovvio link necessario fra le due cose”, osserva. “I benefici del CMU non dipendono da un supervisore unico o da una infrastruttura finanziaria unificata. Mentre la CMU richiede controparti centrali sicure e resilienti, il corrente modello di supervisione può condurre comunque a questo risultato” utilizzando la regolamentazione basata sugli standard internazionali.

Agli inglesi, sembra di capire, non piace l’idea di disfarsi delle proprie entità né tantomeno di affidarsi a un’entità unica di risoluzione, che nel migliore dei mondi possibili ipotizzato dalla Commissione Ue dovrebbe essere uno dei punti d’arrivo della nuova disciplina. Ma in questo caso, conclude la BoE, ciò determinerebbe un aumento dei rischi per la stabilità finanziaria.

Insomma, per la terza volta nella storia recente gli inglesi proveranno a fare il gioco che hanno sempre fatto. Prendere i vantaggi dell’Unione europea e evitare le seccature.

D’altronde, sono inglesi.



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