A maggio, edito da Guerini e associati, uscirà un libro – nella nuova collana “Sì, sì, no, no” – sulla riforma delle banche popolari appena approvata dal Parlamento. Ne saranno autori Gianfranco Fabi e Franco Debenedetti.
A Gianfranco Fabi, già vice-direttore vicario del Sole 24 Ore, Formiche.net ha chiesto di approfondire origini, portata ed effetti della riforma.
Fabi, la riforma è legge. Renzi l’ha spuntata. A che serve dibattere ancora? Ha vinto Debenedetti e lei ha perso…
E’ utile continuare a riflettere sul tema delle banche popolari perché queste realtà continuano a essere particolarmente importanti non solo perché costituiscono un quarto del sistema bancario italiano, ma soprattutto perché hanno rappresentato e rappresentano ancora un momento fondamentale per il finanziamento delle piccole e medie imprese e delle famiglie. La trasformazione obbligatoria delle grandi banche popolari in società per azioni rischia di snaturare progressivamente il carattere e la strategia di questi istituti. E comunque le leggi non sono scritte nel marmo: l’esperienza e la verifica con la realtà possono portare a rivederle e modificarle.
Ma ce l’ha chiesto l’Europa, la riforma la voleva la Banca d’Italia e molti paesi hanno riformato negli ultimi anni i loro sistemi bancari, dice il governo.
Lo chiede l’Europa? Le proposte sulla riforma del sistema bancario elaborate per la Commissione europea alla fine del 2012 da un gruppo di esperti presieduti dal governatore della Banca centrale finlandese Erkki Liikanen andavano unicamente nella direzione di separare le banche d’affari dalle banche d’investimento. Nessun paese europeo ha varato misure coercitive sull’assetto giuridico delle popolari. E’ vero che grandi banche, come il Crédit agricole in Francia, si sono trasformate in società anonime quotate in Borsa, ma lo hanno fatto di loro iniziativa e peraltro mantenendo stretti vincoli al controllo della maggioranza.
Non svicoli. Mario Draghi fin da quando era governatore della Banca d’Italia mazzolava le Popolari e ha gradito di sicuro il decreto trasformato in legge, così come gli attuali vertici di Palazzo Koch.
Lo chiede la Banca d’Italia? E’ vero. Via Nazionale ha sostenuto con forza la validità della riforma sottolineando a necessità di rendere più facili quelle ricapitalizzazioni che saranno chieste in futuro per rispettare sempre più stretti vincoli di bilancio. C’è da notare tuttavia che tutte le banche popolari hanno risposto nel più recente passato alle richieste di adeguamento patrimoniale e che le uniche due banche italiane che non hanno superato gli esami della Bce lo scorso anno sono state Mps e Carige che popolari non sono.
L’esecutivo ha giustificato l’intervento con l’obiettivo di rendere più facile l’accesso al credito.
E’ tutto da dimostrare. Le analisi empiriche, cioè i dati di fatto del più recente passato dimostrano che la quota di crediti che le popolari destinano alle piccole e medie imprese è maggiore, anche in maniera significativa, rispetto alle altre tipologie di banche. Ed è maggiore anche la quota di finanziamenti destinati, attraverso le imprese, alla ricerca e all’innovazione. Con un rovescio della medaglia: la crisi economica ha fatto aumentare le sofferenze delle popolari proprio per le difficoltà che hanno incontrato le piccole e medie imprese
Ma la trasformazione in spa non renderà più forti i grandi istituti popolari?
La storia può dimostrare che la forza di una banca non sta nella sua natura giuridica, ma nella capacità di chi la dirige, nei valori che stanno alla base, nella capacità di rispondere alle esigenze del mercato. Ci sono ottime società per azioni così come ci sono ottime banche popolari. E viceversa. Ma è un valore quella che viene chiamata la biodiversità: cioè il fatto che sul mercato si confrontino realtà con storie e particolarità diverse.
Andiamo sul concreto. Quali sono i veri punti deboli della riforma?
Il decreto è stato una misura sostanzialmente illiberale e autoritaria che ha intaccato uno dei valori fondamentali, garantito dalla Costituzione, come la libertà di iniziativa economica. Le leggi non dovrebbero essere coercitive, ma dovrebbero garantire la massima efficienza e funzionalità del mercato.
Alcuni commentatori hanno sostenuto che le popolari “se la sono cercata” perché hanno ostacolato molti progetti di riforma elaborati negli ultimi anni.
Anche questa è una mezza verità. E’ vero che c’è stata opposizione, in passato come negli ultimi mesi, a trasformazioni dettate dall’alto. Ma non sono mancati i provvedimenti, come la legge approvata nel 2012, che hanno modificato in maniera sensibile le possibilità di partecipazione alle assemblee delle popolari. Così come sono state progressivamente modificate dalla Banca d’Italia le disposizioni di vigilanza ed i requisiti patrimoniali.
Ma ci sono ragioni non esplicitate della riforma?
Lo scopriremo solo tra qualche mese, quando le trasformazioni saranno compiute e i grandi fondi internazionali guidati da qualche finanziere d’assalto potranno avere mani libera nello scalare, finanziariamente, qualche gruppo bancario. Resta il fatto che la riforma continua ad apparire un atto di potere per ricondurre nell’ambito del controllo politico e dei grandi interessi finanziari un settore che è stato non solo per decenni, ma per secoli, una delle strutture portanti dell’economia e della società italiana. Un settore nato dalla logica solidaristica e cooperativa, una logica che si è sviluppata soprattutto grazie ai forti legami con il mondo cattolico e le sue espressioni locali. E non a caso dal mondo cattolico sono venute le uniche e inascoltate voci critiche al provvedimento.
I liberisti duri e puri sostengono che la funzione mutualistica delle popolari appartiene al passato.
Anche questo è solo in parte vero. E’ chiaro che confrontandosi con il mercato aperto anche le popolari devono mantenere un solido equilibrio di gestione. Ma anche se non più prevalente, come afferma la stessa legge bancaria, lo spirito mutualistico resta per esempio nelle agevolazioni per i soci-clienti, ma soprattutto per l’attenzione alle iniziative sociali, culturale e assistenziali del territorio in cui operano sia direttamente, destinando uno quota degli utili, sia indirettamente con il sostegno a fondazioni locali. E’ una dimensione che con la trasformazione in spa rischia di sparire.
E’ un rischio solo teorico.
No, c’è un caso significativo. La Banca agricola mantovana si è trasformata in spa nel 1998 per permetterne l’acquisizione da parte da parte del Monte dei Paschi di Siena in cui venne incorporata nel 2008. Nei patti c’era che Mps avrebbe dovuto continuare a finanziare la Fondazione impegnata sul fronte sociale e culturale. Ebbene da due anni la Fondazione ha ridotto al minimo la sua attività perché Mps non si è più detto disposto a versare i contributi.
Fabi, parliamoci chiaro: nella storia delle popolari ci sono comunque anche zone d’ombra.
Certamente, nella storia delle popolari, ci sono stati e probabilmente ci sono ancora, problemi e giochi di puri interessi. Ma bisogna anche notare che il sistema complessivo delle popolari ha affrontato e risolto con le proprie forze anche le situazioni più difficili.
Facciamo qualche esempio.
C’è stato il caso della Banca popolare di Lodi, con la spregiudicata politica di acquisizioni varata da Giampiero Fiorani, ma la banca è stata poi salvata e integrata nel gruppo della Popolare di Verona. È così altre banche come il Banco di Brescia o il Credito varesino fanno ora parte del gruppo Ubi. E il Credito artigiano è entrato nel gruppo del Credito valtellinese. Integrazioni, fusioni e acquisizioni sono state possibili anche con l’assetto istituzionale che ha regolato fino ad ora il settore, peraltro deciso e mantenuto in piena autonomia. E d’altra parte non si può certo dire che nelle altre banche siano mancati scandali, crisi e necessità di salvataggi. Le popolari proprio per le caratteristiche storiche hanno decine di migliaia di soci, vedono una grande partecipazione alle assemblee, hanno iniziative e sostengono attività di tipo sociale anche al di là degli stretti obiettivi di profitto.
In Parlamento comunque la riforma è stata ritoccata.
L’unica modifica che il Parlamento, in questo caso la Camera perché poi il Senato ha dovuto approvare sul filo di lana con il voto di fiducia, è stata l’introduzione per due anni della possibilità di stabilire un limite del 5% al diretto di voto. Una decisione solo apparentemente positiva perché vuol dire che dopo due anni non potranno più essere posti limiti di questo tipo. Limiti che invece altre grandi banche, è il caso di Unicredit, hanno senza che nessuno abbia mai sollevato obiezioni.
Però su tutta la vicenda c’è una bizzarria. Mentre il sistema delle popolari ha criticato anche aspramente il decreto, contestandone anche la costituzionalità, molti capi azienda delle maggiori popolari, da Bpm alla Popolare di Vicenza, ad esempio, hanno sottolineato le potenzialità positive delle riforma. Come si spiega questa contraddizione?
E’ vero, i presidenti delle popolari, espressione “politica” dei soci, hanno duramente attaccato un decreto che snatura l’identità della banca. Il management è rimasto neutrale o non ha criticato la riforma forse perché spera che con la trasformazione in spa si possa più facilmente puntare sugli utili a breve termine.
Ultima domanda. Pensa anche lei, come detto a Formiche.net dall’economista Leonardo Becchetti, che le fondazioni bancarie potrebbero diventare soci stabili delle Popolari prossime S.p.A?
E’ una possibilità che potrebbe contribuire a non disperdere lo spirito cooperativo e solidaristico. Ma le fondazioni si sono impegnate a rinunciare a posizioni di rilievo nelle banche di cui sono già azioniste ed è quindi difficile, se non impossibile, che possano avere un ruolo diverso da quello di secondo piano degli altri investitori istituzionali.