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Tutti gli effetti geopolitici dell’intesa sul nucleare iraniano

Primo non è ancora una vera intesa, ma una cornice sui “parametri chiave”. Secondo, ci vorrà fino al 30 giugno per esaminare i dettagli e stipulare un “accordo quadro”. E proprio nei dettagli s’annida Satana. Da quel che si sa, la capacità di arricchire l’uranio da parte dell’Iran verrebbe ridotta di due terzi, mentre l’uranio arricchito sarebbe diluito o trasferito all’estero (ecco uno di quei diabolici dettagli sui quali si gioca il dualismo tra uso civile e militare). Kerry esulta, ancor più Federica Mogherini che ha avuto l’onore dell’annuncio insieme al ministro degli Esteri di Teheran, Mohamed Jawad Zarif.

Ma quanto siano imbrogliate le cose sul piano tecnico, lo dimostrano alcune cifre chiave: l’Iran manterrà 6.104 delle attuali 19mila centrifughe e si impegnerà a non arricchire l’uranio oltre il 3,67 per cento per almeno 15 anni. Inoltre si impegna a ridurre il suo attuale stock di 10mila chili di uranio arricchito a non più di 300 chili, arricchiti al massimo al 3,67 per cento. Ancor più complicate le faccende sul piano politico, perché è in ballo la fiducia e molti non si fidano.

Non si fida Israele (non solo Netanyahu), non si fida gran parte del Congresso americano (non solo i repubblicani), ma gli europei, vogliosi di far cadere le sanzioni, in cuor loro possono davvero ammettere di fidarsi di interlocutori noti per la loro doppiezza? Su tutto incombe una questione di fondo: come mai Barack Obama ha rovesciato la diplomazia americana in Medio Oriente, sdoganando gli ayatollah?

Per rispondere dobbiamo volgere lo sguardo a quel che sta accadendo nel mondo islamico. La scossa tellurica comincia a scuotere anche la Turchia di Erdogan sgonfiando i sogni di un nuovo impero Ottomano. Il Califfato arriva alle porte di Damasco e l’Isis se la prende persino con Hamas, dimostrazione evidente che la questione palestinese non è più l’alfa e l’omega del Medio Oriente. Nello Yemen si combatte la guerra tra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia (militare, economica, politica, religiosa) non solo tra Golfo Persico e Mar Rosso, ma nell’Islam intero. E spuntano persino truppe egiziane, di quel generale Al Sisi che si candida a regolatore dei conflitti che hanno lacerato la Libia e squassano l’intero Nord Africa.

Non era meglio tenersi i satrapi di un tempo, quelli usciti dal nasserismo e dal socialismo arabo? In altre parole i Moubarak, i Saddam, i Gheddafi? E che ruolo gioca zio Sam in questa partita destinata a cambiare gli equilibri dell’Islam e, ancora una volta, i suoi confini?

Alla prima domanda, la risposta è abbastanza semplice: i regimi laico-nazionalisti erano marci. Si può gettare su Sarkozy la responsabilità di aver dato il colpo di grazia a Gheddafi, ma la Gran Giamahiria non stava più in piedi. Lo stesso vale per la primavera araba: molti hanno intinto la spada nel curaro, però gli equilibri precedenti erano già saltati. L’intero mondo islamico è attraversato da continue onde d’urto, scatenate dalla rivoluzione iraniana nel 1979. Da allora abbiamo visto la guerra tra Iran e Iraq, la distruzione del Libano, l’Afghanistan in mano ai talebani, l’invasione del Kuwait, la vittoria di Hamas in Palestina, l’irrompere dei Fratelli Musulmani in Egitto, l’espansione dei wahabiti in Arabia, Al Qaeda e l’attacco all’America, gli attentati a Madrid, Londra, Parigi.

Gli Stati Uniti hanno cercato di fare gli sceriffi prima con Bush padre poi con Clinton. I neocon hanno convinto Bush figlio a imporre il canone occidentale, esportando la democrazia, ma hanno fallito. Non ha funzionato lo hard power della destra né il soft power della sinistra. Di questa duplice sconfitta ha tratto le conseguenze Obama. Dopo esseri illuso per molti anni di poter interpretare un po’ l’idealista wilsoniano un po’ il realista, ha cercato un approccio ancor più complicato e spesso confuso.

L’idea, molto kissingeriana, è accettare una serie di potenze regionali in conflitto tra loro, rispetto alle quali gli Stati Uniti non possono essere né onesti mediatori come pensava Clinton né pacificatori alla Bush. Dunque, la cosa migliore è creare un equilibrio multilaterale, a condizione che nessuna sub-potenza prevalga sulle altre.

L’Arabia Saudita resta la sponda storica nel mondo islamico, ma non l’unica; quindi si può sdoganare l’Iran e usarlo come il manganello contro il Califfato sostenuto dai sauditi. Israele non è d’accordo? Washington continuerà a sostenere Gerusalemme contro le minacce degli Hezbollah filo iraniani a nord e di Hamas finanziata dai sauditi al sud. In Africa, l’Egitto è senza dubbio un bastione contro gli uomini neri, purché non si illuda di diventare la potenza dominante in Libia.

Queste geometrie variabili rischiano di confondere le idee e di provocare pasticci. Se non è fatto con il cinismo da Ancien Régime di un Metternich o con l’amaro disincanto di un Talleyrand, possono generare la convinzione che Obama non sappia dove sbattere la testa.

Max Boot, del Council on Foreign Relations, parla di una “dottrina Obama”, messa alla prova dal negoziato con l’Iran, il cui presupposto è tirarsi fuori dal caos mediorientale, anche grazie al nuovo ruolo riconosciuto a Teheran. Ma “il più grande ostacolo – sottolinea – è rappresentato proprio dai mullah”. Karim Sadjadpour specialista di Medio Oriente al Carnegie Endowment, avverte che “nella lotta con l’Isis l’Iran è nello stesso tempo l’incendiario e il pompiere”. Quindi Obama cammina su una fune sospesa nel vuoto. Anche Thomas Friedman, sul New York Times, s’interroga sulla svolta, ma riconosce che “gestire il declino del sistema statale arabo è un problema che non ci appartiene. D’altra parte non sapremmo come farlo”. Dunque, dopo il fallimento dei neocon siamo di fronte alla resa dei liberal, mascherata da nuova strategia?

Il rischio è evidente e lo ha denunciato Netanyahu nel suo modo poco diplomatico, ma molto efficace. Israele resta solo, pronto a scelte drastiche per reagire al pericolo di venire schiacciato da forze nemiche tra loro, ma convergenti di fronte a un comune avversario. E’ successo molte volte in Europa (la Guerra del Trent’anni, le guerre napoleoniche), in Medio oriente è una costante storica. Obama vuole fare il Metternich? Ammesso che ne abbia la stoffa, prima ci vorrebbero un congresso di Vienna.

Stefano Cingolani


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