Ora che si è posata un po’ della polvere sollevata dalla sentenza della Corte Costituzionale del 17 febbraio scorso (e depositata il 17 marzo) che ha dichiarato illegittima la nomina di 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate in quanto avvenuta senza concorso, è bene porsi quattro semplici interrogativi da indirizzare al governo e alle forze politiche presenti in Parlamento.
Primo quesito: gli atti firmati dai dirigenti rimossi dal loro ruolo sono annullabili? Che conseguenze può avere una tale illegittimità? In linea di massima, infatti, applicando dei semplici principi generali si potrebbe concludere che chi non ha il potere di firmare un atto ne inficia la validità. I pareri, invece, sono contrastanti. Alcune sentenze, riferendosi alla Pubblica Amministrazione in generale e non all’Agenzia delle Entrate, hanno stabilito che l’invalidità della nomina non rende nullo l’atto in quanto è sufficiente che esso sia riferibile all’ufficio che lo ha emanato. Secondo un altro orientamento, invece, l’atto potrebbe essere annullato purché impugnato entro i termini e si adduca quale motivo di illegittimità la nullità della nomina del soggetto che lo ha adottato. Molte sentenze, poi, tra cui una recente della Corte di Cassazione, adottano un ragionamento molto più lineare prevedendo che un avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro dirigente. Ergo, se chi ha sottoscritto non è dirigente perché la sua nomina era illegittima, anche l’atto lo sarà.
Anche i commentatori si sono divisi tra favorevoli all’annullamento e prudenti, come il noto tributarista Lupi il quale afferma che il vizio di nomina non avrebbe “effetti meccanici” sulla validità degli atti e potrebbe semmai essere un “elemento rafforzativo” di altri vizi.
Non entriamo nel merito, ma notiamo che l’orgogliosa sicurezza con la quale la direttrice dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha scoraggiato i contribuenti a fare ricorso perché sarebbero “soldi buttati”, rischia di fare la medesima fine di quella dell’esercito austro-ungarico menzionata nel comunicato del 4 novembre del generale Diaz. E’ bene che i burocrati imparino a non emettere sentenze mediatiche prima dei giudici.
Secondo quesito: chi paga? Ammettiamo pure che l’Erario non si trovi a dover restituire valanghe di soldi ai contribuenti. Tuttavia è certo che questo pasticcio crea notevoli danni che verranno sopportati dal contribuente: nuovi concorsi, ricorsi a non finire, disfunzionalità degli uffici. Il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti ha già ricordato come, invece che parlare di sanatorie, è bene cominciare a capire chi ha responsabilità amministrative e politiche di questo pastrocchio. Chi ha errato, paghi: i cittadini sono perseguiti con un certo zelo anche se sbagliano involontariamente, ci aspettiamo che non si facciano eccezioni per i funzionari pubblici.
Terzo quesito: come rimpolpare i ranghi dirigenziali dell’Agenzia? E i maggiori stipendi percepiti dai non-dirigenti che fine faranno? Per favore ci si risparmi un tacon peso del buso (espressione veneta comprensibile a chiunque, immagino) quali proroghe o sanatorie camuffate: si indicano concorsi rapidi, scaglionati, per titoli ed esami e si riporti la legalità all’interno di quegli enti che sarebbero preposti a far rispettare il diritto.
Quarto e ultimo quesito: non è ora di ripensare un po’ alla struttura del nostro apparato fiscale? “Vaste programme” avrebbe detto De Gaulle. Però non è normale che in Francia, Germania, Gran Bretagna o Stati Uniti nessuno sappia il nome dei capi della burocrazia fiscale e da noi prima Befera e ora la Orlandi siano più conosciuti dei ministri. In altre parole, nonostante lo Statuto dei Contribuenti di cui viene fatto in continuazione strame, si ha l’impressione che l’Agenzia delle Entrate e annessi e connessi (Equitalia, Guardia di Finanza) siano diventati autoreferenziali e dettino la linea ai ministri. Non è raro che ad interrogazioni parlamentari rivolte al MEF si risponda con l’incipit “L’Agenzia delle Entrate riferisce quanto segue: (…)” senza alcuna valutazione del Ministero stesso. Eppure, dovrebbe essere il MEF il depositario dell’interpretazione delle norme fiscali e non l’Agenzia che è la controparte del contribuente (salvo poi che un giudice non trovi anche l’interpretazione del Ministero scorretta). E, d’altronde, l’intera vicenda della gestione delle nomine dirigenziali denota una libertà di manovra dell’Agenzia piuttosto elevata.
Quindi, come suggerisce uno dei decani del diritto tributario italiano, Enrico De Mita, forse è il momento che vi si ripristini una guida politica chiara per supervisionare l’apparato delle entrate e assumersi le responsabilità politiche. Se non si vuole reintrodurre il Ministro delle Finanze, si nomini un vice ministro forte, competente e dedicato alla materia: ovviamente non per piegare le scelte tecniche dei funzionari a convenienze politiche, ma perché sia chiaro, come diceva il presidente Truman, “dove finisce lo scaricabarile”.
Alessandro De Nicola
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