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Un Def troppo furbetto?

Per il secondo anno consecutivo, la politica economica del governo italiano ruota attorno a un negoziato con la Ue sulla flessibilità, in parole povere sul rinvio del pareggio di bilancio e della regola del debito. Nel 2014 è andata bene: ha consentito di evitare una stangata. Quest’anno chissà, perché i conti non saldati si accumulano: ai 12,6 miliardi del 2014 se ne aggiungono altri che portano la bolletta a 16 miliardi. A tanto ammonta, infatti, quel che bisogna recuperare per evitare il rincaro delle imposte indirette scritto nero su bianco nella clausola di salvaguardia offerta in pegno a Bruxelles.

Quando Renzi parla di ridurre le tasse, in realtà vuol dire che spera di evitare il loro aumento a cominciare dal primo gennaio 2016. E quando promette che non ci saranno tagli nella spesa, intende ripetere il giochino del 2014.

Rinviare ancora una volta il pareggio del bilancio (al 2017 quello strutturale e al 2018 il riequilibrio complessivo tra entrate e uscite) consente di rosicchiare 8 miliardi di euro. A due miliardi ammonta il risparmio stimato sugli interessi a fronte di un debito che continua a crescere, mentre le entrate tributarie dovrebbero crescere automaticamente di 4 miliardi in seguito alla ripresina. Restano 10 miliardi da recuperare un po’ qua un po’ là; vedremo come, soprattutto se gli enti locali alzeranno le barricate.

In ogni caso, la spesa pubblica non sarà ridotta e resta alta (nell’ultimo trimestre 2014 ha superato il 57% del pil), troppo alta, tanto alta da impedire qualsiasi manovra di rilancio. Quanto alla pressione fiscale, ammesso che sia possibile evitare un aggravio il prossimo anno, rimarrà incollata a una quota stratosferica, pari in media al 43-44% del prodotto lordo.

Il governo porta sul tavolo europeo le riforme strutturali, ma sono le stesse presentate lo scorso anno, non ancora realizzate, a cominciare dal Jobs Act. Il loro impatto è modesto nel breve periodo, circa 0,4% del prodotto lordo. Andrà molto meglio in futuro, ma a quel punto sarà finita la droga del Quantitative easing, l’euro rispetto al dollaro tornerà a salire, e diventerà di nuovo decisiva la produttività interna delle imprese e la competitività del sistema.

Al prevedibile punto di svolta si arriva con una crescita modesta, come prevede il Documento di economia finanza. Nessuno può credere, infatti, che sette decimali di punto quest’anno e un punto virgola quattro nel 2016 possano delineare la “ripartenza” di una economia prostrata da tre recessioni che hanno fatto perdere dieci punti di prodotto rispetto al 2008. L’Italia rischia di sprecare ancora una volta la sua occasione? Presto per dirlo, ma il rischio esiste davvero.

Torniamo, così, alla casella di partenza: Bruxelles. Certo, un negoziato è necessario, anche perché nessuno ormai rispetta più il fiscal compact tranne la Germania che, non a caso, è furiosa contro gli altri suoi grandi partner. La Francia è stata esentata, ma in realtà sta facendo il bello e il cattivo tempo e con tono di sfida proclama che il rapporto deficit/pil no scenderà sotto il 4%. Quanto alla Spagna, sta al 5,7 (quando si sottolinea a ragione gli sforzi fatti dagli spagnoli per riaggiustare la loro situazione, si trascura quasi sempre di ricordare che loro hanno un disavanzo pubblico doppio rispetto a quello italiano). Dunque, è giusto che anche l’Italia cerchi di ritagliarsi i propri spazi di manovra.

E’ una situazione paradossale che dimostra quanto il fiscal compact sia non un incentivo, bensì un impaccio al risanamento e alla ripresa economica, dunque un errore clamoroso. Ha ragione Gustavo Piga, è “una macchina infernale”, sarebbe meglio ammetterlo e agire di conseguenza, evitando eccezioni spesso concesse sotto ricatto.

Ma anche se gettassimo alle ortiche un’altra delle norme troppo rigide, quindi stupide, adottate sotto la dittatura del pensiero unico teutonico, per l’Italia il sollievo darebbe momentaneo e tutto sommato marginale. Perché una spesa pubblica al 57% del pil e una pressione fiscale al 44% non sono sostenibili. Bisogna avere il coraggio di dire la verità senza cercare alibi.

Nel caso italiano, non è in gioco “la quantità di solidarietà con chi soffre”, come scrive Piga a proposito della Grecia, perché la spesa pubblica tagliabile, anzi da tagliare, è quella che ha consentito a ceti parassitari di prosperare come topi nel formaggio. Ciò è vero anche in Grecia o in Spagna, ma in quei paesi i roditori cominciano a pagare o a non trovare cibo, da noi continuano indisturbati a rosicchiare.

I governi precedenti non hanno fatto nulla per cambiare. Monti ha tamponato l’emergenza del 2011-2012 aumentando le tasse (due-tre punti di pil). Il governo Letta ha remato (invano) per non affogare. Renzi ha rinviato. Nessuno ha il coraggio di attaccare la spesa pubblica, una bomba a orologeria che rischia di scoppiare in mano a ogni governo che si metta in testa di maneggiare la spoletta.

La farsa della spending review dimostra l’impotenza della politica economica e fiscale, la debolezza dei partiti ricattati dai mille gruppi di potere, la miopia di una classe dirigente senza nerbo e senza strategia. Ciò spiega perché l’Italia sta rischiando di perdere il treno.

Vantarsi che quest’anno non ci saranno né tagli né tasse significa accontentarsi di stare a galla sostenuti dal salvagente di Draghi. Il presidente della Bce ha avvertito che non potrà durare troppo a lungo, ma intanto è ossigeno prezioso.

I renzologi sostengono che è tutto calcolato. Primum vivere. Poi sarà varato l’Italicum e si va alle elezioni. Con il centro destra allo sbando, Renzi cavalca solitario sulle grandi praterie. Una volta vinto con ampio margine e assicuratosi una consistente maggioranza in parlamento, potrà davvero mettere mano ai mali non più oscuri del paese. Può darsi; ora come ora, sembra troppo furbo per essere vero.

Stefano Cingolani


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