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La lezione di Supermario al Parlamento italiano

Mi figuro lo spettacolo che dev’esser stato, lo scorso 26 marzo, quando Mario Draghi si è presentato nel nostro Parlamento a dire una cosa molto semplice: la ricreazione è finita, ora dovete far sul serio.

E mi immagino anche, non avendone contezza, quanto sia stato affollato l’emiciclo romano, coi deputati assisi e silenti a mo’ d’omaggio verso l’italiano più illustre, e probabilmente più potente, di questi tempi amari. Quel Supermario che ha salvato l’Europa, dicono tutti, chi con senso di sollievo chi con malcelato disappunto, aprendo il portafoglio della Bce quando era il momento e continuando a farlo da allora in poi.

Avrei voluto esserci, se non altro per vedere le facce dei silenti, quando Draghi ha ricordato loro che la politica monetaria non basta, o almeno non basterà ancora a lungo. Per salvare capra e cavoli, ossia le nostre costose società e i nostri ancor più costosi diritti, la ricetta è semplice, dice Supermario: bisogna lavorare di più e meglio, rispettare le regole europee che ci siamo dati, e, laddove gli stati non fossero in grado di adempiere a cotanto impegno, lasciare che si espandano i poteri degli organismi sovranazionali capaci di far loro whatever it takes per far progredire l’Europa.

Giusto per addolcire la pillola, Draghi non trascura di ricordare che il rigore deve camminare a braccetto con l’equità, che mi riporta alla fine del 2011, quando i professori al governo ne fecero un motto.

Avrei voluto esserci, alla Camera dei deputati, per vedere la faccia degli onorevoli mentre il presidente della Bce li accompagna dolcemente verso l’autentico ultimatum del nostro tempo: fare le riforme o sparire. E anche questa, pure se Draghi mai userebbe questa parole, mi sembra di averla già sentita.

Questo discorrere, che a molti parrà estremo, si può apprezzarlo solo ricordando quanto ciò sia perfettamente coerente con le pubbliche allocuzioni di Draghi, delle quali più volte vi ho raccontato, parendomi la voce di Draghi quella più europea fra le tante che ho sentito. Se non altro perché di solito viene seguita da fatti assai concreti.

L’Europa di Supermario l’ho capita da tempo, e leggendo Draghi ho anche capito quanto profondo e pervasivo sia il progetto dell’integrazione europea, con quanta pazienza sia stato condotto, e quanto ormai sia stato superato il punto di non ritorno, con grande scorno temo per i tanti che credono davvero che non sia così.

Perciò se fossi stato lì, nel Parlamento italiano, avrei ascoltato Draghi con orecchie attente, perché ormai è chiaro che ciò che dice, in un modo o in un altro, finisce col succedere, piaccia o no.

Purtroppo non ero lì, e perciò devo accontentarmi di leggerlo.

Vi risparmio le cose che avrete letto sui giornali, tipo gli effetti potenziali del QE e altre pinzillacchere, che temo allontanino l’attenzione dall’unico punto saliente che qui voglio evidenziare. Ossia il passaggio dalla fase della politica monetaria a quella delle riforme strutturali.

Il caso italiano è icastico: à la miglior testimonianza di come possano andare male le cose. La crescita potenziale, stimata intorno al 2,5% nei primi anni ’90, è scesa all’1,5% nel 1999 e adesso il FMI e altri pensano che sia a zero.

Per capovolgere questo trend, la ricetta di Draghi è quella classica offertista, ossia aumentare il numero delle ore lavorate nell’economia e la loro produttività. Produrre di più, per, classicamente, essere più ricchi. La vecchia legge degli sbocchi di Say, se qualcuno la ricorda ancora.

D’altronde è il pensiero che va per la maggiore, visto che le cosiddette politiche keynesiane sul lato della domanda vengono (a parole) osteggiate dalle banche centrali e dagli stati.

Se il feticcio contemporaneo è quello della produzione, dobbiamo, piaccio o no, farci i conti. La crescita della produttività nell’euro area è stata fra il 2000 e il 2013 di appena il 9,5%. In Italia addirittura dell’1,3%. Negli Usa del 26,1%

Se guardiamo ai TFP, ossia i fattori totali della produzione, che consentono di apprezzare l’efficienza degli input nei processi produttivi, scopriamo che nell’eurozona sono cresciuti appena dell’1,1%, in Italia sono diminuiti del 7,7%, e in America sono aumentati del 10,5%.

Queste le cifre riportate da Draghi, ammesso che i nostri parlamentari ne abbiano preso nota.

Di fronte a questa situazione c’è poco da fare: dobbiamo far ripartire la fabbrica. Una delle strade maestre suggerite da Draghi è la “riallocazione delle risorse” dalle imprese meno efficienti a quelle più efficiente, che pure ci sono nel nostro paese anche se i giornali non ne parlano.

Il tutto ovviamente accompagnato da un uso sapiente dell’innovazione tecnologica e con massicci investimenti sulla formazione.

Poiché mi sembra tutto molto astratto, provo a dirvela come l’ho capita io: il lavoratore italiano deve lavorare di più, studiare di più, migliorarsi di più. Possibilmente senza chiedere troppi aumenti però, sennò ne risente la competitività.

Le riforme servono, o dovrebbero servire, proprio a questo. A cambiare il nostro modo di lavorare e di intendere il lavoro. Non più un qualcosa di acquisito, ma un costante divenire nel cui flusso eracliteo dobbiamo immergerci con gioia e consapevolezza.

Poi ci sono altre riforme che servono all’Italia, certo. A cominciare da quelle della giustizia civile e commerciale, che ancora ci fa somigliare alla periferia del mondo. Per il resto, l’Europa sta già lavorando per unificare i mercati dei capitali, dopo aver unificato la supervisione bancaria, quindi per i soldi non ci saranno problemi: grazie alle entità sovranazionali che hanno preso in carico questi processi (a cominciare dalla Bce), la finanza funzionerà meglio, assai meglio di come avrebbe funzionato se di queste cose, a partire dalla moneta per finire con i bond, se ne fossero occupati ancora gli stati nazionali.

Chiedo scusa a Draghi se riassumo e semplifico così banalmente il suo pensiero, assai più articolato, ma credo ciò ci permetta di apprezzare perché a un certo punto dica che “malgrado l’importanza delle riforme strutturali per la convergenza economica e monetaria, questa riforme rimangono in gran parte un responsabilità nazionale. E questo aggiunge un elemento di fragilità alla nostra Unione. Dal mio punto di vista ciò deve cambiare”.

Ed ecco qui che avrei voluto vedere le facce dei parlamentari.

Cambiare come?

Partiamo dal presupposto che la nostra Unione non prevede, né è facile prevederà mai, meccanismi di trasferimenti interstatali. Per dirla con le parole di Draghi, non è contemplato che ci siano paesi strutturalmente debitori e paesi strutturalmente creditori: “Non siamo un’Unione dove alcuni paesi pagano permanentemente per gli altri”. Occorre, per usare un’espressione ormai abusata, che ognuno faccia i suoi compiti a casa.

Detto ciò, Draghi riconosce alle istituzioni europee di aver usato bene i poteri che sono stati loro conferiti, al contrario di quanto hanno fatto gli stati, visto che “le regole fiscali sono stati ripetutamente non rispettate”.

“Perciò – dice – dal mio punto di vista, se siamo d’accordo che serva una maggiore convergenza nel campo strutturale, il nostro obiettivo dovrebbe essere transitare da un sistema di regole gestite dagli stati a uno basato su istituzioni europee più forti”.

E poi un delizioso avvertimento: “Rinchiudersi dietro i confini nazionali non risolve nessuno dei problemi che abbiamo di fronte: dovremmo comunque fare i conti con la sfida demografica, la bassa produttività e l’alto debito. Molti rimarrebbero senza lavoro”. Quindi bisogna procedere “a livello nazionale dove necessario a integrando col livello europeo dove appropriato”.

Combinare la politica monetaria della Bce, con le riforme e i cambiamenti istituzionali che saranno necessari. ” E sono convinto – ha concluso – che questo Parlamento, come ha sempre fatto, giocherà un ruolo centrale in questo processo”.

Non so se i nostri parlamentari hanno applaudito.

Ma conoscendoli penso di sì.


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