E’ da decenni che l’Europa avverte che occorre riunire i numerosi Stati e Staterelli che la compongono in un’unica rete infrastrutturale che crei economie esterne per tutti e permetta un maggior saggio di sviluppo interno. Non c’è Stato-membro, inclusa la potente Germania, che non abbia bisogno di infrastrutture e non c’è Capo di Commissione Europea che non abbia tentato di farlo, fallendo però nell’intento.
Ora che il problema, oltre che strutturale, è anche diventato congiunturale, poiché senza una ripresa della domanda interna europea le promesse di crescita sono solo, per dirla come Renzi, un cambio di vocabolario (penso però che voglia dire vocabolo, ma basta intendersi) e non una realtà alle porte. Per fiaccare le resistenze dei paesi freddi sulla sua nomina, Jean-Claude Juncker ha tirato fuori dal cassetto un ennesimo Piano, talmente astruso che ha convinto pochi osservatori, ma è stato usato per il cambio del vocabolario. I governi europei ha aperto una linea di credito a Juncker, anche perché solennemente, pagando pagine di pubblicità nei principali giornali europei, egli ha promesso formalmente il 15 gennaio di quest’anno, che il suo Piano sarebbe partito a metà anno; calendario alla mano, significa giugno prossimo.
Per quanto se ne sa, le lunghe procedure decisionali delle istituzioni europee non hanno ancora stabilito quali progetti possano essere finanziati, per cui la situazione è ancora al punto di partenza, perché gli Stati e i privati non sanno quali siano le condizioni per rendere un progetto inquadrabile nel meccanismo ideato, che nel gergo viene indicato come “junckerabile”.
La BCE di Draghi ha messo una pietra tombale sul Piano Juncker rifiutandosi di incanalare il suo Quantitative Easing al finanziamento dei progetti, i quali, dati i minuziosi meccanismi di scelta stabiliti, avrebbero tutte le garanzie per essere eligible all’intervento della BCE, forse anche più di quanto non lo siano molti titoli di Stato che inutilmente (almeno per la crescita) essa va acquistando.
A questo punto è lecito sollevare il problema del perché i piani infrastrutturali europei non decollano. L’interpretazione più pessimistica (ma a pensar male ci si azzecca) è che, salvo l’Europa dei vincoli, non si vuole l’Europa della crescita, che è poi l’Europa unita secondo quanto è scritto nei Trattati.
Partecipare direttamente o indirettamente a un Piano infrastrutturale di ampio respiro, come sarebbe quello di 315 mld di euro di Juncker, significa far nascere un embrione di unione politica che, ammettiamolo apertamente, nessuno vuole. La vecchia Europa delle divisioni ha finito con il prevalere. Le politiche restano un fatto nazionale in mano ai partiti e alle lobby di interesse degli Stati-nazione. Non solo non si vuole stabilire una solidarietà tra i popoli europei ma, di fatto, non si vuole neanche la sussidiarietà tra organi dell’Unione e Stati membri, principio fondante dell’Unione Europea.
Nel caso di infrastrutture che uniscano il Continente europeo far scattare il principio di sussidiarietà è una necessità, non una scelta politica, e farebbe un gran bene a una giustizia sociale non discriminante. Mentre l’Europa dorme e si dedica al vocabolario, la Cina avvia una politica ambiziosa nel settore infrastrutturale internazionale, finanziando la via della seta e l’autostrada del mare, anche con i soldi dei Paesi europei.