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Tutti gli errori di Renzi sulle banche popolari

popolari sistema bancario

Grazie all’autorizzazione della casa editrice Guerini, pubblichiamo un breve estratto della conversazione tra Lodovico Festa e Giulio Sapelli che introduce il libro “Popolari addio?” scritto da Franco Debenedetti e da Gianfranco Fabi. Qui un brano del saggio di Fabi, qui l’articolo della presentazione del libro a Roma e qui la gallery fotografica di Umberto Pizzi alla presentazione del libro tenuta mercoledì scorso al Centro studi americani.

LODOVICO FESTA – Le tue posizioni sulle banche popolari sono ben note. Senza invadere il campo dei «veri» discussori di questo libretto, val la pena riprendere qualche elemento.

GIULIO SAPELLI – Un brillante intellettuale, alfiere del pensiero liberista, come Franco Debenedetti, metterà, senza dubbio, alla prova le tesi di chi, come me, è tenacemente convinto della necessità di costruire rapporti articolati tra società e mercato; un grande difensore dell’esperienza del credito cooperativo come Gianfranco Fabi, invece, saprà ricordare meglio di me non solo i problemi di metodo suscitati dall’utilizzo di un decreto legge per trasformare la forma proprietaria delle grandi banche popolari, ma anche le ragioni di merito. Senza invadere il terreno di discussione delle due qualificate personalità da noi interpellate, quindi, ecco qualche elemento di contesto. A parte la ovvia perplessità sulla forma del «decreto» che, per sua natura, irrigidisce il confronto parlamentare, rispetto al contenuto il provvedimento pare «tagliare con l’accetta» il nodo Popolari, anche se si interviene su diritti di proprietà consolidati in decine di anni e che, di conseguenza,
richiederebbero cautela e articolazione. Il problema non è contrastare l’innovazione, ma
avere consapevolezza di come, in tutto il mondo, il problema del rapporto tra banca e territorio sia fondamentale. Accanto, e forse prima di un intervento, vi sarebbe bisogno piuttosto di alcune scelte deontologiche utili per la credibilità di una proprietà cooperativa, che le banche stesse dovrebbero assumere di spontanea iniziativa: i manager di questo genere di istituti di credito, per esempio, non dovrebbero avere caratteristiche,
in materia di stipendi e formazione, uguali a quelli del settore privato. Le attività delle
Popolari, inoltre, dovrebbero limitarsi anche sotto un altro aspetto: comprendo la necessità di usare i derivati per coprire i rischi dell’attività bancaria. Tuttavia, un istituto cooperativo non può pensare di «fare» i bilanci grazie ad attività di puro investimento finanziario, per così dire, speculativo: non è il suo mestiere.

L.F. – Insomma, la tua è una difesa del cuore del sistema delle Popolari: non influiscono su di te gli argomenti legati alle esigenze di modernizzare forme di proprietà ritenute, ormai, arcaiche, nonché quelli legati all’esigenza di favorire concentrazioni volte a sostenere lo sviluppo economico, ovvero di richiamare quei capitali tanto necessari per gli investimenti? E non ti influenzano neppure le invettive renziane contro i cosiddetti «luoghi oscuri» che favorirebbero concentrazioni inopportune di potere dove comandano sempre gli stessi senza rispondere a nessuno?

G.S. – Solo poche considerazioni: l’idea che nelle moderne società occidentali l’unica forma di proprietà utile sia quella capitalistica contrasta, anzitutto, con l’esperienza degli Stati Uniti. Al di là della ampie differenze tra sistema americano e sistemi prevalenti dell’economia continentale (non europea, perché la Gran Bretagna è più simile agli Stati Uniti), tra cui la centralità del carattere pubblico dell’accumulazione (grazie all’efficienza della borsa), oltreoceano vi è abbondanza di forme diverse di proprietà, sia cooperative sia municipali. Certo, c’è molta attenzione a trasparenza, efficienza e rispetto delle regole di mercato, ma le forme della proprietà variano liberamente secondo gli scopi delle società interessate: realizzare accumulazione attraverso il profitto, garantire un servizio ai soci (che nel caso delle popolari diventa anche un «servizio» alla società, dal momento che si creano le premesse per un circuito virtuoso tra risparmio e investimenti sul territorio), assicurare funzioni strategiche per le comunità. Lo stesso vale per le municipalizzate che io, peraltro, vedrei meglio realizzate nella forma di cooperative di cittadini ben radicate sul territorio, piuttosto che trasfigurate in certe attuali deformi aggregazioni; le eventuali funzioni «nazionali», che richiedano dimensioni d’impresa più grandi, infine, potrebbero essere assicurate da società di secondo grado, trasparenti nella gestione, come la RWE.

L.F. – Tu dici: «Si comprende quanto la società e il governo USA siano attenti al territorio. Negli Stati Uniti c’è grande attenzione per il territorio».

G.S. – Barack Obama – non Leonid Breznev –, infatti, ha nominato un nuovo direttore della FED
che ha dedicato tutto il suo impegno all’economia territoriale e allo sviluppo del mondo mutualistico nordamericano, in primis alle banche cooperative di credito.

L.F. – Invadiamo ancora per un attimo il terreno dei nostri discussori: è vero che le grandi
popolari sono luogo di poteri segreti e incontrollati come denuncia Matteo Renzi?

G.S. – Ogni giorno mi sforzo di farmi piacere il nostro presidente del Consiglio: della mia cultura fa largamente parte il concetto di «male minore» e, in un periodo tempestoso come questo, concentrarci sulle vie di uscita possibili è indispensabile. Tuttavia, il modo renziano di argomentare, ancor prima di quello di agire, ha, non di rado, un sapore un po’ teppistico e truffaldino. Noi sappiamo bene quanto un leader abbia l’esigenza di usare, come direbbe Machiavelli, «sia la golpe sia il lione»; però deve farlo senza perdere autorevolezza, ovvero il principale scudo di chi deve fare assumere scelte importanti in momenti che possono diventare (anzi quasi sicuramente diverranno) ardui. «Luoghi oscuri» è una sparata che riflette posizioni non solo sbagliate, ma ridicole. Certo: relativamente ridicole. In Italia, infatti, non mancano, almeno in alcune grandi popolari, manovre opache, accrocchi di potere da superare, tanti «angolini» da ripulire. Tuttavia, se si esaminano le questioni in maniera «relativa», non c’è gara tra un sistema che ha forme ben definite di proprietà, responsabilità delineate con precisione tra organi societari, management e proprietà, e quella galassia bancaria che ha al suo centro le fondazioni bancarie; quest’ultime, effettivamente, appaiono ben più spesso autoreferenziali.



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