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Perché il referendum in Grecia è salutare

La parola torna al popolo: per la Grecia, patria della democrazia, non poteva essere diverso. Per Bruxelles, invece, è una rivoluzione: cade un castello di carte eretto con infinita pazienza, fatto di convenzioni stratificate, di deleghe fondate sul nulla, di Trattati inutilmente densi di principi altisonanti mai messi in pratica.

È stato il premier Tsipras a gelare tutti, facendo saltare il tavolo delle trattative, quando ha annunciato di aver chiesto la Convocazione di un referendum popolare sulle proposte ultimative presentategli dall’Eurogruppo, accompagnandolo con un Appello al popolo greco in cui denuncia con forza l’odiosità delle proposte formulate. Tutti scommettevano invece che, alla fine, si sarebbe arreso, stretto tra la scadenza del termine del rimborso delle rate del Fmi e la prospettiva di un lunedì nero, con le File davanti alle banche per ritirare gli ultimi contanti disponibili.

Ha spiazzato tutti, sottraendosi al dilemma tra prendere o lasciare: di certo, una mossa studiata da tempo. Invece di partecipare al gioco del coniglio, quello in cui chi ha paura molla per primo, ha fatto la volpe. Ha vinto d’astuzia, come avrebbe fatto il mitico Ulisse.

Finisce un’epoca. È la fine per l’Europa di Bruxelles, quella delle sale ovattate in cui nessuna voce mai risuona, perché tutti si ascoltano tramite gli interpreti, connessi solo con microfoni ed auricolari. È la fine dei dossier già prefabbricati, quando un’ora trascorre solo per fare un giro di tavolo in cui ciascun rappresentante dei ventotto Paesi membri parla due minuti ciascuno. È la fine delle riunioni in cui non si discute, visto che rappresentano una mera formalità: tutto è già scritto, deciso, formattato, tradotto. È la fine delle burocrazie, dei rappresentanti dei governi che fanno da comparsa.

Ma è soprattutto la fine di un gioco al massacro, durato cinque mesi, durante i quali il governo greco è stato lasciato solo a trattare con il Bruxelles Group, il nuovo pseudonimo della Troika. Ha avuto tutti contro: dalla Germania e la Francia, che hanno usato lo strumento degli aiuti per salvare le loro banche, che altrimenti avrebbero rischiato di saltare in aria, alla Spagna ed al Portogallo che vedono come fumo agli occhi qualsiasi cedimento verso Atene, che darebbe forza ai movimenti politici che si cimentano quotidianamente contro le politiche di austerity. L’Italia ha fatto finta di nulla, quasi infastidita: mai da una parte, mai dall’altra, minimizzando sempre. Eppure ha pagato, inutilmente, le politiche recessive che ci sono state imposte, che sarebbero dovute servire per stabilizzare il debito pubblico, mentre lo hanno fatto crescere a livelli mai toccati prima. Intanto, il prodotto ed i redditi sono crollati, la disoccupazione è aumentata, i fallimenti moltiplicati, le sofferenze bancarie triplicate rispetto alla situazione precedente.

A Bruxelles, d’ora in avanti, non si deciderà più nulla: rappresenta un regno virtuale, inutile, se torna la democrazia, se tutti chiederanno di poter consultare prima il popolo. Questo è il fallimento di una idea malsana di Europa, di una Unione che non ha nulla a che vedere con la Comunità che nacque con il Trattato di Roma, di una euromoneta che serve alle banche per arricchirsi sotto la protezione degli Stati, che trasforma i cittadini in servi e gli Stati in esattori dei crediti bancari.

Si sta giocando una partita decisiva, tra Stato e Mercato, in Europa. Anche negli Usa ed in Inghilterra, paesi in cui il liberismo è di casa, sono gli Stati a dettare le regole al mercato, non a subirle. Da loro, l’obiettivo della politica monetaria è quello della massima occupazione, mentre in Europa si persegue la massima disoccupazione per garantire il massimo del profitto. La Grecia sta provando a rovesciare i rapporti di forza: la democrazia è sempre rivoluzionaria. Per questo i mercati la temono, e preferiscono i burocrati: pagando, s’intende.

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