Archiviata la seconda lettura del disegno di legge sulla riforma della PA, resta l’ultimo passaggio in Senato e la scrittura dei (tanti) decreti delegati conseguenti. Approfittando della calura, val la pena di soffermarsi su qualche aspetto sinora non preso in considerazione da nessuno degli attori in gioco: in particolare, poggiando la riforma essenzialmente su un radicale riordino delle norme in materia di dirigenza pubblica (diamo acquisiti per relationem i pro e contro della questione, inclusi gli opportuni mea culpa dei dirigenti), credo utile porsi qualche domanda sul come la dirigenza lavori nel concreto. In altre parole, aldilà dei temi certamente fondamentali relativi alle nomine, al rapporto con la politica ed alla valutazione, qualcuno si è soffermato su come viene gestito il tempo che le donne e gli uomini incaricati di funzioni dirigenziali passano negli uffici? Non è domanda peregrina, perché i dirigenti pubblici negli uffici ci passano tante ore. Troppe, secondo me. Da una sommaria ricognizione compiuta un annetto fa – senza presunzione alcuna di valenza scientifica o statistica – nei confronti di circa centocinquanta colleghi, prevalentemente delle amministrazioni centrali dello Stato, i risultati sono stati disarmanti: da un lato non si esce prima delle 19 (non raramente l’orario di uscita si assesta verso le 20), mentre, dall’altro, si arriva alle 10 ore circa di permanenza alla scrivania, senza contare le inevitabili emergenze o (Dio ce ne scampi!) le tirate delle leggi di stabilità. A questo si aggiunga che molti fra coloro che ho interpellato dichiarano di essere di fatto sempre connessi on line e via posta elettronica le sere ed i fine settimana, mentre più di una collega ha lamentato problemi di gestione di figli e famiglia, barcamenandosi fra nonni volenterosi e pomeriggi a scuola sempre troppo corti.
Ecco, non so come la pensiate, ma a me pare ci sia qualcosa che non va. Intanto una permanenza così lunga in ufficio, che pare accomunare pubblico e privato, dal punto organizzativo è un nonsenso, essendo provato che la produttività dopo un certo numero di ore cala vertiginosamente. Basta, d’altro canto, fare il paragone con gli uffici delle istituzioni comunitarie o nel nord Europa per vedere come di norma il tempo riservato alla vita privata abbia eguale dignità di quello dedicato al lavoro. Ed anzi, essere un workaholic è considerato disdicevole dal punto di vista sociale, scelta egoista di chi non ha interesse nei confronti degli altri e della famiglia in primo luogo. A casa nostra, invece, occhiatacce sdegnate a chi osa ritagliarsi parte della giornata per i propri cari, il tempo libero, le amicizie, lo sport. Non solo, come ricorda l’OCSE, “è comprovato che orari lavorativi lunghi possono danneggiare la salute personale, compromettere la sicurezza e aumentare lo stress”, ma è soprattutto una contraddizione in termini di efficienza. Una piccola follia organizzativa. E come viene speso tutto questo tempo in ufficio? A sentire colleghe e colleghi sparsi per i ministeri, ognuno si dichiara sovraccarico di lavoro, soffocato dalle scadenze, rincorso dalle urgenze. Ci credo: mi ci sento spesso anche io. Anzi, più ore si stanno in ufficio, più l’ansia aumenta. Il tempo non basta mai e, di converso, sembra impossibile trovare qualche ora in cui studiare con attenzione un dossier o aggiornarsi a fondo sulla tal novità legislativa. Ma, almeno, siamo efficienti? Diciamo intanto che certamente perdiamo tempo prezioso tra infinite riunioni in cui ci si parla addosso e grovigli di adempimenti della temuta triade performance/trasparenza/anticorruzione, che rispecchia spesso la miopia di una macchina pubblica ripiegata su sé stessa. Non parliamo, poi, di un utilizzo ormai ridicolo della posta elettronica, che ha raggiunto livelli orgiastici: alzi la mano chi al decimo invio di quell’importantissima bozza di decreto non ha perso traccia di chi ha rivisto cosa, rassegnandosi a ripescare una vecchia versione da qualche decina di e-mail fa. E, infine, non va trascurato il disallineamento organizzativo fra il dirigente che, uscendo più tardi, arriva più tardi al mattino, ed il personale che tendenzialmente entra molto presto per uscire – comprensibilmente – il prima possibile fatte le proprie ore.
C’è una risposta a tutto ciò: l’inconfessata incapacità dell’organizzazione di funzionare efficientemente e, in aggiunta, quella del dirigente di organizzare al meglio il proprio tempo e, conseguentemente, il proprio lavoro. Fare il dirigente pubblico non è solo un titolo che si ottiene con un concorso. È la capacità di vedere dove si sta andando e di organizzare in modo creativo, mescolandole, risorse umane e finanziarie per raggiungere degli obiettivi. Come sibilava Clint Eastwood in Gunny alle sue reclute: “Adattarsi, improvvisare, raggiungere lo scopo!”, concetti spesso alieni al burocrate medio. Chiarisco: ho una grande opinione della media dirigenza pubblica italiana, almeno per come conosco la realtà dei ministeri, e credo abbia retto il Paese in momenti assai delicati, soprattutto della nostra storia recente. Tuttavia l’oppressiva dimensione burocratico-formalista che guida ogni passo della nostra azione – in questo concedo più di una ragione a Matteo Renzi – non ci fa delegare abbastanza, non ci offre gli attrezzi per programmare non dico il prossimo semestre ma neanche la settimana che ci aspetta, non ci mette in grado di organizzare e gestire con efficacia la squadra che ci viene affidata. Esagero? Forse. Ma sono dinamiche che esistono e contano, col risultato che parte dei dirigenti pubblici continua spesso ad agire come dei superfunzionari, senza riuscire appieno a (ri)appropriarsi del loro compito di mettere in piedi scenari complessi di azione pubblica a favore dei decisori. Nel correr dietro all’agenda dettata dal Governo su incarichi e revoche, indipendenza dalla politica e valutazione dei risultati, ben pochi hanno visto oltre il muro di norme per andare alla sostanza. Le donne e gli uomini non sono robot da avviare e lasciare andare: vanno reclutati, formati e curati con attenzione perché rappresentano la vera benzina di un’organizzazione. Le persone rispondono a tutta una serie di stimoli e sollecitazioni, delle quali quella di natura economica non è affatto la più importante, e i veri risultati e scatti in avanti in una qualsiasi organizzazione non si ottengono affastellando regole su regole, ma valorizzando il potenziale di un individuo.
È mancato e manca drammaticamente, sia da parte dei decisori politici che da parte della dirigenza pubblica, un approccio organizzativo e sostanziale, preferendo spesso giocare al massimo ribasso possibile. E seppure, quasi incredibilmente, la macchina pubblica continui a reggere, questo è un equivoco che non possiamo più permetterci. Va bene la riforma Madia, e va bene anche il suo timido accenno alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Dobbiamo, però, pretendere una riforma di assai più ampio respiro: rischiamo di regolare perfettamente tutta una serie di ingranaggi della catena di montaggio dimenticando che le pubbliche amministrazioni non sfornano bulloni. E questo richiederebbe un’analisi di senso di cui, purtroppo, al momento si vedono ben poche tracce. Concedetemi allora una provocazione. Prendiamo il toro per le corna e cominciamo col dire, con le teorie del public management anglosassone, che “a certain has been done”: s’è fatta una certa, si direbbe nei palazzi romani. Basta con l’infinita dilatazione dei tempi della giornata. Al netto di scadenze ed emergenze, alle 17 si chiude la baracca: quello è il tempo che viene concesso, si portino risultati a casa. Ed investiamo risorse nel risvegliare la creatività di chi, nonostante tutto, ha ancora tanta voglia di dare alla collettività col proprio lavoro. Chi non ci sta, vada a fare altro. Scommettiamo che l’efficienza aumenterebbe vertiginosamente?