Comunque vada, ci ricorderemo a lungo del #BlackMonday dei mercati cinesi: che il governo di Pechino riesca o (scongiuri!) fallisca nel riprendere il controllo della situazione, gli effetti di questo 24 agosto 2015 si stanno già moltiplicando al resto del pianeta. E le variabili potrebbero aumentare di ora in ora. Tra le cause più immediate del crollo di oggi media e analisti indicano la frenata che l’economia del Dragone ha subito negli ultimi mesi (troppo affidamento sulle esportazioni; scarsi consumi interni in rapporto alla popolazione) e un mercato azionario immaturo e poco regolato, nel quale tra il giugno 2014 e il maggio 2015 sono entrati 40 milioni di nuovi investitori, in massima parte completamente impreparati. Ma potrebbero esserci ragioni più lontane nel tempo e più profonde, che meritano di essere esplorate.
9 novembre 2008: a meno di due mesi dallo scoppio della crisi finanziaria globale innescata dai mutui subprime di Wall Street e dal collasso di Lehman Brothers, il premier Wen Jiabao punta esplicitamente il dito contro gli Usa, il cui debito pubblico è finanziato dalla Cina. Il governo di Pechino annuncia un imponente pacchetto di stimoli all’economia del valore di 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari); questa imponente massa di liquidità sarà distribuita nel corso di due anni e investita in edilizia, opere pubbliche, industria, trasporti e, in misura minore, sanità e istruzione. Nonostante la crisi globale, nel 2010 la Cina riesce a conseguire uno strepitoso tasso di crescita del 10,3%, tanto che mentre Stati Uniti ed Europa annaspano Pechino è costretta ad aumentare diverse volte i tassi d’interesse per contrastare un’inflazione che cresce a ritmi sempre più preoccupanti.
Attenzione però, perché il diavolo si nasconde sempre nei dettagli, e questo è abbastanza grosso: dei 4mila miliardi di yuan del pacchetto straordinario il governo centrale fornisce solo mille miliardi e qualche altro spicciolo, mentre il resto sarà riallocato dai budget dei governi locali. La Cina – tra province, città municipali, regioni “autonome” – conta in tutto 34 gigantesche amministrazioni locali, che si trovano improvvisamente con pesantissimi tagli di budget e deficit già maturati. E dato che la carriera di un funzionario locale si basa sulle performance che riesce a conseguire, queste 34 amministrazioni devono inventarsi qualcosa, anche perché la legge vieta loro di emettere bond locali.
La risposta è in un acronimo anglosassone, L.I.C., Local Investment Companies: si tratta di agenzie finanziari locali semiprivate nei cui consigli di amministrazione siedono uomini legati a doppio filo alle amministrazioni locali, quando non gli stessi uomini del Partito che la mattina vestono la casacca di funzionario pubblico e il pomeriggio la giacca e cravatta del broker privato. Queste agenzie controllano un asset fondamentale, la terra, che in Cina è sempre di proprietà dello Stato, e viene utilizzata come garanzia per ottenere prestiti dalle banche e finanziare così infrastrutture, grandi opere e spesso speculazioni edilizie degli amici degli amici.
Nel periodo 2009-2011 in Cina si costruisce di tutto, ovunque. La crescita prosegue, l’inflazione cresce, i prezzi delle case raggiungono livelli stellari e si genera quella che secondo molti analisti è una gigantesca bolla immobiliare: al comune cittadino cinese è vietato investire su molti fronti (in quegli anni le Borse sono iper-regolamentate), e il mattone diventa il principale canale di investimento. Contemporaneamente le L.I.C. accumulano debiti, perché magari la superstrada che collega due città di terza categoria non genera grandi introiti, o forse perché molto denaro è rimasto appiccicato nelle mani di funzionari corrotti, e le quattro grandi banche cinesi accumulano una massa di crediti inesigibili.
L’entità dei prestiti ottenuti dalle L.I.C. è un rebus avvolto in un mistero racchiuso in un enigma, ma se una stima ufficiale del 2011 li fissa a quota 7660 miliardi di yuan (di cui il 26% le banche non rivedranno mai più e un 50% dall’esito incerto), i calcoli di economisti indipendenti arrivano addirittura a quota 11mila miliardi.
Accanto a questa situazione creditizia già molto confusa corre un binario ancora più limaccioso, quello delle cosiddette “banche ombra”. Si tratta di un canale finanziario “parallelo” e informale affidato a società simili alle trust companies e anche a privati, che presta denaro agli imprenditori piccoli e medi con cui le grandi banche non si impegnano, a tassi d’interesse che possono arrivare a 14volte quelli applicati normalmente.
Di solito si tratta di liquidità pronta, utile a pagare il fornitore di turno, ma nel 2011 nella città di Wenzhou (9 milioni di abitanti, di cui il 90% sono coinvolti tanto come debitori che come creditori) questo sistema si inceppa per qualche settimana, provocando una serie di fallimenti a catena a cui solo il governo centrale può porre rimedio con un intervento diretto. “La crisi di Wenzhou” viene ripianata, ma il sistema delle banche ombra genera diversi allarmi.
Nel 2012 la politica cinese produce lo scandalo più clamoroso degli ultimi 20 anni: dietro il caso Bo Xilai, un intrigo a base di omicidi misteriosi, fughe nei consolati Usa e insabbiamenti (guarda qui), si nasconde un gigantesco scontro per arrivare ai vertici del Partito comunista cinese nel congresso che si svolgerà a novembre. Semplificando all’osso: la fazione di Bo Xilai e soci, favorevole alla spesa pubblica e al mantenimento dello status quo, viene decimata da quella del presidente Xi Jinping e del premier Li Keqiang, fautori di alcune riforme di mercato come una maggiore liberalizzazione dei mercati finanziari.
E arriviamo così agli sviluppi recenti: dopo aver arginato la bolla immobiliare con misure draconiane, lo scorso anno il governo cinese rende accessibili le Borse a un’enorme fetta di popolazione, che può finalmente abbandonare il mattone e lanciarsi sulle azioni di una miriade di società. Per investire in Borsa i cittadini cinesi sono disposti a indebitarsi, anche con le banche ombra. E gli stessi organi di controllo che dovrebbero vigilare sulle società quotate sembrano disposti a chiudere un occhio sui veri requisiti, come mettono in luce questo rapporto di Credit Suisse e il caso Hanergy, il primo produttore di pannelli solari che nel maggio scorso si è rivelato poco più di una scatola vuota dai conti truccati.
Dopo il rovinoso crollo di oggi tutto il mondo attende le mosse del governo e della Banca centrale di Pechino. Ma, a parte le immense riserve in valuta straniera controllate dalla Banca centrale incombono due domande: le quattro principali banche cinesi hanno liquidità sufficiente? E quanto è compromesso il sistema bancario del Dragone nella sua interezza? Anche questo sembra un rebus, avvolto in un mistero, racchiuso in un enigma.
Antonio Talia, editor Informant ed ex corrispondente da Pechino
“I giorni del dragone. Un anno di intrighi politici a Pechino”
Casa editrice Informant
(post tratto dal profilo Facebook di Talia)