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Lo scandalo Volkswagen e la figuraccia europea

Stropicciarsi le mani di fronte all’imbarazzo che lo scandalo Volkswagen (VW) sta provocando all’intera Germania indica poca conoscenza della storia economica (e della letteratura) e un’ottica molto miope.

La storia economica della principale potenza industriale del continente è costellata da scandali industriali. Ne citiamo tre.

Il primo è la serie di “trucchi” e “trucchetti” che, nello smisurato romanzo che fruttò a Thomas Mann il Premio Nobel per la letteratura (Bunderbrooks Verfalle eine Famille), è costellata in un lungo arco di decenni sia l’ascesa sia la decadenza dei Bunderbrook.

Nella prima parte (il racconto inizia verso il 1835), l’impresa familiare si espande perché i Buddenbrook vedono la crescita della propria azienda con spirito sociale – quanto più importante è l’industria , tanto più ne fruiscono i vari strati di Lubecca – tuttavia per l’espansione dell’intrapresa, i Buddenbrook ricorre a prassi scorrette edad un modo di aggirare la concorrenza che oggi sarebbe vietato (e fondamentale lo era anche allora, pur se lo Stato, di fronte ai potenti, lasciava correre).

Negli ultimi libri (il romanzo ne ha undici nella versione originale), è proprio l’avvilupparsi di trucchi e trucchetti industriali che porta alla decadenza della famiglia, all’orlo della bancarotta. Nello stesso Terzo Reich (pur ammantato di morale pubblica) non mancarono vicende tutt’altro che commendevoli: molte sono ricordare da Albert Speer, architetto “di corte” e negli ultimi mesi della guerra ministro della Produzione; di recente Germà Bel dell’Università di Barcellona ha esaminato in dettaglio (in un paper ancora inedito) il malcostume che contraddistinse la privatizzazioni tedesche degli Anni Trenta, privatizzazioni volute fortemente da Hitler, che pur si dichiarava socialista per acquisire benevolenze presso l’industria del Reich.

Più di recente, il “miracolo economico” fu costellato da spionaggio industriale e intrallazzi; notissimo l’ancora non risolto omicidio (verosimilmente nel quadro di una vicenda di spionaggio industriale) della Fraulein Rosemarie oggetto anche di un film, premiatissimo, di Rolf Thiele) nel miglior albergo di Francoforte.

Inoltre, nel 1990, l’industriale Juergen Hippenstiel-Himhausen è stato condannato dal tribunale di Mannhein per avere impiantato una fabbrica di armi chimiche in Libia.

Chi grida allo scandalo oggi dovrebbe tenere conto di questo contesto: la Germania, definita come Italia e Francia “Paese di tarda industrializzazione”, si è messa alla pari , ove non all’avanguardia dell’industrializzazione, anche ricorrendo a mezzi quanto meno “scorretti”.

A mio avviso, il vero scandalo risiede altrove: nel fatto non tanto che i “controllori tedeschi” lo abbiamo fatto passare (era prassi già ai tempi dell’ascesa dei Buddenbrook, quanto che la tentacolare burocrazia europea o non se ne sia accorta (a ragione della sua notoria insipienza) od abbia fatto lo gnorri (a ragione della sua notoria infingardaggine).

Il danno alla Germania e all’Europa è sterminato: ai tempi dello scandalo Enron, il costo reputazionale venne stimato in 16 volte la sanzione finanziaria. Soprattutto, come possiamo fare la voce grossa nel negoziato per la Transatlantic Parternrship o nel G7? In quanto UE, siamo tutti sputtanati.



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