La chiamano razionalizzazione, ma è solo un modo elegante per definire la lenta e costante (quanto silenziosa) morìa delle banche europee che prosegue dalla fine degli anni ’90 e che ha conosciuto una rapida impennata dal 2008 in poi. Per carità, non bisogna stupirsi: le concentrazioni sono uno degli esiti da manuale del processo capitalistico, motivate com’è noto da esigenze di efficienza e di efficacia, che tradotto vuol dire tagliare i costi, a cominciare da quelli del personale, e far salire i profitti.
Ma c’è dell’altro che bisogna ricordare di questo processo. Ossia la circostanza che sia anche una conseguenza del modello di politica finanziaria che le autorità europee stanno con grande fatica provando a incardinare e che vede nella prossima creazione del mercato unico dei capitali il punto di svolta. Si cerca, in sostanza, di spezzare il nodo atavico che collega i paesi europei alle loro banche, sostituendo sempre più il finanziamento bancario delle imprese, giudicato per varie ragioni fonte di inefficienze, con quello che arriva dal mercato dei capitali.
Ma si tratta di uno sviluppo lento, anche se meno di quanto si pensi. Nel frattempo però è opportuno conoscere nel dettaglio la fisionomia del sistema bancario europeo così come si presenta in questo tormentato fine d’anno. E per farlo non ho trovato di meglio che sfogliare il recente Report on financial structures della Bce, che al settore bancario europeo dedica un ampio capitolo.
Qui leggo che “il consolidamento del settore bancario è largamente dovuto alle pressioni per ridurre i costi, in particolare in un contesto di integrazione finanziaria” e che dal 2008 in poi tali pressioni sono aumentate. Difatti alla fine del 2014 il numero totale delle istituzioni creditizie nell’eurozona quotava (su base non consolidata) 5.614, a fronte dei 6.054 di fine 2013 e di ben 6.774 della fine del 2008 (vedi grafico).
La Bce rileva che il calo di 440 istituti bancari fra il 2013 e il 2014 è stato il più pronunciato registrato da quando si è iniziato a raccogliere questi dati. Mi sorpredo a notare come il calo più vistoso di banche lo abbia subito la Francia, dove hanno chiuso gli sportelli 167 istituti, e poi in Spagna, dove sono stati 61. Quindi Cipro (-44), Germania (-40) e Finlandia (-35). In una prospettiva di medio termine, tuttavia, sono state le banche greche, cipriote e spagnole ad aver conosciuto a fase più acuta di consolidamento, seguite da quelle finlandesi, francesi, portoghesi, italiane e olandesi. La moria, insomma, non ha risparmiato nessuno, neanche fra i paesi core dell’eurozona.
Ciò mostra con chiarezza che quanto sta avvenendo è profondamente sistemico, fuori cioé dalle logiche del semplice ciclo economico.
Un altro dato interessante è quello che ci mostra come il 69% del sistema bancario sia concentrato fra Austria, Francia, Germani e Italia, in crescita rispetto al 67% del 2008. Quindi la concentrazione ha rafforzato le aree che erano già forti, mentre le banche spagnole, al centro di un imponente piano di salvataggio, pesano appena il 3%.
Dal lato degli asset, il sistema bancario dell’eurozona pesava alla fine del 2014 28,1 trilioni di euro, su basi consolidate, in calo del 15,7% rispetto al 2008 e del 4,8 rispetto al 2012. Il grosso di questa perdita di asset si è registrato in Irlanda, Estonia e Cipro. Al contrario il valore degli asset è cresciuto in Finlandia e a Malta.
I giganti rimangono le banche francesi e tedesche, che detengono 7,2 trilioni e 7,1 trilioni di asset rispettivamente, staccando quindi notevolmente le banche spagnole e quelle italiane che quotano 3,6 e 2,7 trilioni. Se però guardiamo il peso specifico di questi asset i relazione al Pil il quadro risulta molto differente. Su tutte primeggia il Lussemburgo, che ha asset per il 1.618% del Pil, cioé quasi il triplo del dato di Malta, seconda in questa classifica con il 656%, anche se in entrambi i casi la maggioranza di questi asset appartengono a sussidiarie di compagnie estere.
I processi intervenuti in questo lungo periodo hanno avuto esiti prevedibili sul versante della concentrazione, che si è ampliata fino al livello pre crisi. Anche qui primeggiano le banche tedesche, italiane e quelle spagnole. Il risultato è stato che la quantità di asset detenuta dalle prime cinque banche europee si è ampliata, e ormai supera il 48%.
Da un punto di vista strutturale, l’evoluzione osservata dalla Bce mostra che l’uso del mercato dei capitali per il funding, nel corso del 2014, è stato stagnante (e questo ci riporta alla premessa) mentre diminuisce il ricorso ai fondi di banca centrale. Le banche, insomma, si stanno rafforzando usando il modello di business tradizionale, pur dovendo fare i conti con un’eredità molto pesante che si manifesta nell’alto numero di non performing loans (NPLs) che la Bce osserva con preoccupazione. E poi c’è la questione dei costi, il cui taglio continua “ma rimane limitato, in particolare riguardo ai costi di staff”.
Tutto ciò ha effetti sulla redditività, che rimane insoddisfacente, ma forse anche per motivi diversi da quelli che la Bce rileva nel suo studio. Di buono c’è che è migliorato l’indice del capitale soggetto a vigilanza. Il Tier 1, in media, è aumentato dal 13 al 14,4%. Al contempo è diminuito l’indice di leverage. Quindi nel complesso i superstiti sembrano diventati più solidi.
Tutto ciò ci disegna uno scenario assai complesso, dove istituti sempre più grandi sono chiamati a fare business in un ambiente sempre più difficile e dove la strategia difensiva di contenimento dei problemi post crisi ha assorbito l’attenzione al posto di quella offensiva di un miglioramento delle performance.
Sicché è facile prevede che la moria continuerà. Ma probabilmente non ce ne accorgeremo nemmeno.
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