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Ecco come si può distruggere l’Isis

totalitarismo, Baghdadi

Dopo la strage di Parigi, il presidente francese François Hollande ha chiesto ieri da Versailles il sostegno militare dell’Occidente per un’azione tesa a vincere la guerra contro il terrore dell’Isis.

In cosa dovrebbe consistere un possibile intervento? Con quali armi e con quanti uomini andrebbe realizzato? E perché non si è fatto finora?

Sono alcuni degli aspetti analizzati da Formiche.net in una conversazione con Gianandrea Gaiani, direttore del magazine online Analisi Difesa e commentatore di questioni militari per diverse testate, tra cui Il Sole 24 Ore.

L’Isis si può distruggere militarmente?

Decisamente sì, solo che finora si è scelto di non farlo. So che la parola di per sé è orribile, ma bisogna condurre una guerra con la massima forza di fuoco per poi pacificare e ricostruire.

Come potrebbe essere abbattuto il “Califfato”?

Basterebbe che l’Occidente inviasse sul campo 20mila uomini, formazioni mobili per offrire supporto a quelli dei Paesi e delle forze già impegnati attivamente nella lotta ai drappi neri. Sarebbero sufficiente aggiungere unità elicotteristiche e aeree di cui disponiamo ampiamente. In due settimane si libererebbe l’Iraq, con perdite estremamente contenute. Vale la pena ricordare che lo Stato Islamico non ha difese aeree né aviazione.

Da quali Paesi dovrebbero provenire, dunque, questi soldati?

La logica vorrebbe che, dopo aver dichiarato che “la Francia è in guerra” e aver fatto appello all’unità occidentale, Parigi metta a disposizione almeno 5mila uomini per condurre questa azione militare. Poi altri Paesi dovrebbero unirsi a una sorta di “coalizione dei volenterosi” che potrebbe estirpare questa gramigna. Alle truppe occidentali si unirebbero poi i reparti governativi siriani di Bashar al-Assad, gli hezbollah libanesi, gli iraniani e i russi.

Alcuni Paesi, come l’Italia, hanno ritenuto finora che fosse meglio muoversi in una cornice internazionale riconosciuta o, al limite, offrire un supporto diverso, come addestrare i peshmerga curdi e inviare Tornado e droni da ricognizione. 

Sono in molti a dire che non si può fare nulla senza il consenso internazionale. Poi, però, almeno tredici Paesi entrano nello spazio aereo siriano senza alcuna autorizzazione. Dov’è la risoluzione Onu che lo stabilisce? Mi rendo conto che dopo anni di tagli alla difesa, pensare a un intervento attivo genera non poche difficoltà non solo politiche, ma anche pratiche. Ma se davvero siamo in guerra, e il governo italiano ha più volte ribadito che l’Isis è una minaccia anche per il nostro Paese, allora bisognerebbe fare qualcosa di più. Siamo l’unico Paese ad aver inviato aerei che non bombardano. Assodato che né l’Unione europea né le Nazioni Unite troveranno mai unità su questo tema, faremmo bene a ripensare il nostro ruolo e non comportarci come al solito, senza fare scelte precise. In questo secondo caso sarebbe molto più dignitoso rimanere a casa e non fare nulla.

Hollande ha fatto appello all’articolo 5 del Trattato Atlantico, che obbliga i membri della Nato a sostenere gli alleati in caso di guerra. È verosimile?

La richiesta ha un senso puramente politico. Ma dubito che la Nato, propriamente detta, possa intervenire contro l’Isis. Possono farlo i singoli alleati. Ma è piuttosto difficile immaginare che la Russia si confronti con l’Alleanza Atlantica per condurre un’operazione congiunta, seppur contro un obiettivo comune come i jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi.

Perché finora Isis non è stato contrastato seriamente?

Ognuno conduce in Medio Oriente una propria guerra, con obiettivi e interessi diversi. La stessa Francia, pur toccata già dai fatti di Charlie Hebdo, si è dimostrata timida nel contrasto all’Isis, fino a questo momento. Va bene modificare la Costituzione, come propone François Hollande. Ma Parigi ha condotto in un anno meno incursioni aeree di quante ne abbiano fatte i russi in un mese.

Quali sono questi interessi?

Gli Stati Uniti si sentono ormai sollevati dall’obbligo di mandare lì i loro ragazzi, come ha fatto intendere Barack Obama, perché hanno raggiunto una autonomia energetica che consente loro di valutare più serenamente l’opzione militare. Le petromonarchie del Golfo Persico vedono nell’azione dell’Isis un modo per rompere la continuità territoriale della cosiddetta “mezzaluna sciita” sotto influenza iraniana. La Turchia è più preoccupata dei curdi. Mentre i Paesi europei, come la Francia, vivono un dilemma di natura economica. Da un lato vorrebbero condurre un’azione più dura. Dall’altro ciò cozzerebbe con i nostri interessi nella regione. Molti dei Paesi che tacitamente sostengono gruppi jihadisti fingendo di fargli la guerra, come Arabia Saudita e Qatar, sono le stesse che da un lato finanziano le moschee del Vecchio Continente dove troppo spesso si predica l’odio, dall’altro investono nelle nostre economie, comprano immobili, aziende in difficoltà e squadre di calcio. La nostra politica estera e di difesa, al momento, è compromessa da questi rapporti. Se non si esce da questa ambiguità sarà difficile contrapporre risposte serie a questa minaccia.

Potrebbe essere utile un rafforzamento degli scambi d’intelligence? Washington e Mosca ne discutono.

Le attività dei servizi segreti sono “nazionali” per definizione. Non illudiamoci troppo che ci sia un grande scambio di informazioni per gli interessi divergenti di cui parlavamo, ancora di più tra Stati Uniti e Russia. Se, però, si identifica un obiettivo comune, come nel caso dell’Isis, ciò sarebbe molto utile per accelerarne la sconfitta. Ognuno degli attori ha accesso a informazioni utili a comporre il puzzle. Completarlo velocemente può rivelarsi essenziale durante un guerra.

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