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Ferrovie, privatizzazione e deragliamenti

Si è capito qualcosa del perché i vertici delle Fs nominati dal governo Renzi sono stati rottamati dopo 17 mesi dallo stesso Renzi?

Le interpretazioni prevalenti del ribaltone sono più o meno le seguenti: presidente e amministratore delegato non erano in sintonia, l’amministratore delegato scafato e tosto voleva essere il dominus, il presidente pignolo e permalosetto aveva idee diverse dal capo azienda su come e cosa privatizzare.

Tutto poteva appianarsi quando il presidente ha mollato le deleghe su strategie e dunque sulla privatizzazione che in prima battuta gli erano state assegnate. Ma neppure questa mossa è servita a pacificare i vertici. Eppure, raccontano le cronache, l’ad condivideva l’auspicio del Tesoro di vendere circa il 40 per cento di tutto il gruppo, quindi compresa anche la rete posseduta da Rfi.

Il presidente, invece, in sintonia con Il ministro Graziano Delrio, viste le recenti parole del titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, riteneva che fosse necessario prima scorporare Rfi e magari un po’ di immobili, riorganizzare il gruppo e mettere sul mercato solo una parte della holding.

Visto lo stallo, Renzi ha deciso di rottamare i vertici e di lasciare intatto, o quasi, il resto del consiglio.

Ma leggendo ieri l’intervista di Messori al Corriere della Sera ci siamo accorti che il corsivista di Formiche.net, Leo Soto, qualche giorno fa non aveva deragliato troppo: “Si scorge una mancanza di direzione politica da parte dell’esecutivo che non è più comprensibile – aveva scritto Soto – Ci sono stati giorni, settimane e mesi per definire una linea di marcia. Eppure a distanza di 17 mesi (Elia e Messori sono stati nominati a fine maggio 2014) il governo non si è ancora chiarito le idee. Sarebbe stato fisiologico che già all’atto della nomina dei vertici delle Ferrovie ci fosse stato un input politico preciso visto che il gruppo è controllato interamente dal Tesoro ma evidentemente per alcuni dossier si preferisce vivere alla giornata”.

Ha detto ieri Messori: “Il Mef ha costituito un gruppo di lavoro sulla privatizzazione di Fs. Io ho partecipato a quel gruppo, chiarendo subito che non avrei mai preso la parola per evitare che il consiglio fosse vincolato a processi decisionali, in cui non era pienamente coinvolto. Ho atteso per nove mesi che quel gruppo arrivasse alla definizione di una proposta da sottoporre alla discussione del consiglio. Ho atteso invano“.

Parole, quelle dell’economista, che aprono uno squarcio sulla reale incisività del Tesoro. Infatti si possono ricordare alcuni dossier in cui l’Italia continua a soccombere: il no della Commissione Ue al piano per l’intervento del fondo interbancario Fitd nelle banche commissariate e il niet di Bruxelles alla bad bank. Così come in altri casi si nota un rumoroso silenzio: dal fondo Juncker che vede la Germania e i Paesi del Nord prendersi le posizioni di peso ad altri esempi di impasse di società statali come la Sogin. Oppure si può notare una reiterata atarassia rispetto all’efficiente baldanza renziana: emblematico il caso del ribaltone in Cdp e le stesse nomine di presidente e ad di Fs decise due giorni fa.

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