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Come lottare contro Isis e terrorismo diffuso

Nonostante la riluttanza di Obama ad ammettere la realtà, era chiaro sin dall’inizio come l’attentato di San Bernardino fosse di matrice jihadista. Le rivelazioni degli investigatori fugano ora gli ultimi dubbi: la radicalizzazione del killer autoctono, le sue frequentazioni poco raccomandabili, e quel giuramento di fedeltà via Facebook al califfo al-Baghdadi da parte della moglie fanno intendere che si è trattato del tipico attentato islamista nell’era dello Stato islamico. Un attacco “ispirato” e non “diretto”, la spontanea iniziativa cioè di un “branco di “lupi” (wolf pack) per compiacere un gruppo che ha fatto radici ovunque, in California come in Europa, e ovviamente in quel Siraq dove il capo dell’IS ha fondato un califfato come guanto di sfida al mondo islamico e alle potenze mondiali che cooperano con quel mondo per garantire l’ordine e la sicurezza.

Dopo l’intervento francese e il voto dei parlamenti britannico e tedesco a favore di un’azione militare in Siria, lo sforzo di smantellare uno Stato fondato sul terrore si sta intensificando. Anche se la Camera dei Comuni ha autorizzato solamente operazioni aeree, nel dibattito che ha preceduto la deliberazione si è parlato apertamente dell’opportunità di ricorrere all’opzione che Obama ha escluso sin dal principio: l’intervento di terra. Si tratterebbe di sostenere le manovre delle uniche forze che al momento combattono i jihadisti coi boots on the ground: i peshmerga curdi, cui potrebbero aggiungersi i sunniti locali non estremisti che sono pronti a sacrificarsi per espiantare il califfato e che, secondo alcune stime, sarebbero 70 mila. Una forza di non poco conto che, se adeguatamente sostenuta dall’Occidente e dalla sua variopinta coalizione di alleati, potrebbe riuscire nell’impresa. Dopo di che, però, si dovrà pensare alla complessa fase della ricostruzione, che andrebbe affrontata senza ripetere gli errori che hanno contraddistinto la politica irachena degli ultimi anni, adoperatasi in ogni maniera per marginalizzare la popolazione sunnita spingendola così tra le braccia dei tagliagole.

Sempre che un simile scenario si realizzi, non bisogna farsi illusioni. Sarebbe un combattimento lungo e sanguinoso, durante il quale lo Stato islamico si difenderebbe senza esclusione di colpi, inclusi gli attentati all’Occidente. I segnali raccolti dalla Gran Bretagna a poche ore dall’inizio delle sue operazioni sono inquietanti: sulla rete pullulano messaggi minacciosi come “Londra dopo Parigi”. Le autorità europee si stanno adoperando freneticamente per affrontare la minaccia dei foreign terrorist fighters, i volontari europei del jihad che il mese scorso, coordinandosi coi militanti autoctoni belgi e francesi, hanno fatto breccia nei nostri confini e colpito a sangue freddo lo stadio di Saint Denise e il X e XI Arrondisement di Parigi. E’ inquietante rilevare come uno dei partecipanti del complotto che ha falcidiato la movida parigina, Salah Abdeslam, sarebbe addirittura riuscito a rientrare in Siria.

Le misure di prevenzione devono essere urgentemente rafforzate se non vogliamo che il suolo europeo sia parte del fronte di questa guerra proclamata dal califfo contro il resto del mondo.


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