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Banca Marche e Banca Etruria, che succede tra Renzi e Padoan?

Il “pasticciaccio brutto” attorno a quattro piccole banche, che sembrano avere fatto carne di porco con i risparmi loro affidati, richiede un ragionamento più articolato di quanto appaia nelle cronache giornalistiche.

In primo luogo, spesso le vicende delle banche segnano quelle dei governi, ove non di stagioni politiche. Lo scandalo della Banca Romana alla fine del diciannovesimo secolo segnò la fine della “sinistra storica” e l’arresto della carriera politica di Giovanni Giolitti. Negli anni Trenta del ventesimo secolo, fu l’antifascista Alberto Beneduce a togliere la castagne dal fuoco a Benito Mussolini con la creazione dell’Iri e dell’Imi e la legge bancaria del 1936. In tempi più recenti, le crisi del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, risolte tempestivamente prima che entrasse in vigore il Trattato di Maastricht, aprirono la strada alla fine del pentapartito e di quella fase politica che viene chiamata la Prima Repubblica. Si possono indicare numerosissimi casi analoghi all’estero (si pensi all’affaire Stavisky nella Francia del 1934).

In secondo luogo, è difficile congetturare un nesso tra la crisi delle quattro banchette e il futuro dell’incipiente “regime renziano”. E’ però chiaro che lo scambio di accuse tra Roma e Bruxelles toglie qualsiasi illusione (a chi l’ha nutrita) sulla supposta “luna di miele” tra il Napoléon Le Petit italiano e le autorità comunitarie che esamineranno, con il rigore del caso, i nostri conti pubblici. E’ anche evidente che i rapporti tra Palazzo Chigi e Via Venti Settembre, ove fossero mai stati buoni, non potranno essere quali sarebbero necessari per una politica economica efficace in cui il Presidente del Consiglio si limita a coordinare e ciascun Ministro opera nel campo delle proprie competenze con la necessaria autonomia.

A Roma è vox populi che Via Venti Settembre (che dispone di una Direzione Generale all’uopo) avrebbe agito più tempestivamente (ossia prima dell’entrata in vigore direttiva europea sul bail in di detentori di obbligazioni subordinate) e seguendo una strada differente da quella voluta dal dipartimento economico di Palazzo Chigi. Da quando Giovanni Spadolini, nel 1980, tentò di dare a Palazzo Chigi un ufficio economico (il tentativo più ambizioso fu quello di Massimo D’Alema), tali strutture (spesso composte da malcapitati mal assortiti) non hanno mai funzionato bene ed hanno spesso ingenerato confusione. Lo posso dire per esperienza personale dato che ho fatto parte di una di esse.

In terzo luogo, le regole europee erano note da tempo. Non è piacevole citare se stessi ma ho scritto un capitolo del libro collettaneo Towards the European Banking Union curato da Emilio Barucci e da Marcello Messori e pubblicato da Passigli Editore nel 2014 e un saggio più ampio uscito su una rivista internazionale lo scorso giugno. Allora mancava la co-approvazione da  parte del Parlamento Europeo, ma il quadro era chiarissimo. Né a livello tecnico né a livello politico nessun rappresentante dell’Italia ha presentato contro-proposte (alcune alternative sono nei due lavori citati). Soprattutto i componenti italiani del Parlamento Europeo non hanno presentato nessun emendamento. Quindi, sarebbe stato opportuno (come avrebbero voluto fare Via Venti Settembre e Via Nazionale) affrontare e risolvere il problema prima della loro entrata in vigore (in Italia) lo scorso settembre. Non si sarebbe dato adito a pensare che si è voluto dare tempo a qualche “uom possente” (Verdi-Boito Simon Boccanegra, atto primo quadro secondo) di mettere se stesso (e capitali?) al riparo.

Certo c’è stato molto pressappochismo e molta cialtroneria ed una buona dose di dabbenaggine. Tuttavia, non è illogico pensare che ci siano aspetti che debbano interessare la giustizia penale. Le cui indagini potrebbero segnare il fato di un regime.

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