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Ecco come si è gonfiata la bolla dell’economia cinese

La Cina non ha solo problemi economici, di riconfigurazione dell’assetto produttivo da orientare verso i consumi interni ed i servizi, ma soprattutto finanziari, di riorganizzazione del sistema bancario. Quello che preoccupa, infatti, non è tanto il marcato rallentamento del Pil quanto l’effetto finanziario delle nuove perdite in Borsa: perché a rimetterci le penne, ancora una volta, non sono stati i semplici risparmiatori, ma soprattutto gli imprenditori che erano già fortemente indebitati e che hanno approfittato delle ripetute manovre espansive adottate dalla Banca del popolo cinese per indebitarsi ulteriormente ed investire in Borsa, con l’obiettivo di ripagare tutto con le plusvalenze.

All’enorme quantità di debiti che erano stati contratti tra gennaio e luglio dell’anno scorso per speculare al rialzo, sono seguite le pesanti perdite estive in Borsa; poi, a partire da novembre, sono stati contratti nuovi debiti per ricostituire le posizioni perdute ed ora ci sono le nuove perdite da fronteggiare: per questo motivo, in giro c’è gran timore per quanto accade in Cina.

Si raccolgono ancora una volta i cocci di una politica monetaria espansiva in un contesto di banche universali: il denaro immesso a migliori condizioni dalla banca centrale, in questo caso riducendo il tasso di sconto e riducendo la riserva obbligatoria, doveva servire a dare sostegno all’economia reale, per ridurre il costo dell’enorme debito che grava sulle imprese in difficoltà per il rallentamento delleconomia. Ed invece, si è provocata l’ennesima bolla di valori in Borsa, che ha contribuito a far rallentare la ripresa del settore immobiliare, già in difficoltà: la bolla ha drenato tutte le risorse disponibili. D’altra parte è logico: chi mai investirebbe in un appartamento, che non si sa quando e di quanto si rivaluterà in futuro, nel momento in cui la Borsa vola sempre più in alto, con impennate all’apparenza inarrestabili? Solo uno sciocco lo avrebbe fatto. Ecco perché ora la Cina si trova sia con il mercato immobiliare fermo sia con la Borsa in condizioni assai precarie.

Chi osa meravigliarsi, ora preoccupatissimo, per quel che accade alle Borse di Shanghai e di Shenzhen perché ci sono quotazioni in precipitevolissima discesa, avrebbe dovuto meravigliarsi ancor più a maggio scorso, constatando che la performance in un anno della prima piazza era stata del +101,3%, raggiungendo così per capitalizzazione il Japan Exchange Group, mentre l’indice della seconda era cresciuto del 111,6%, raggiungendo a sua volta per capitalizzazione l’Euronext. Nello stesso periodo, al confronto, il Nyse era cresciuto del 6,6% ed il London Stock Exchanche del 9,8%, mentre Euroxext aveva lasciato sul tappeto il 7,2% e la stessa Deutsche Borse era caduta del 3% netto. Neppure faceva molta impressione che il rapporto price/earnings (P/E) avesse raggiunto allo Shanghai Composite Index un valore medio di 23 volte, e di ben 50 volte allo Shenzhen. Ci voleva poco a capire che quella cinese era una bolla pronta a scoppiare, ma ai mercati piace sempre così: la ricchezza che cresce con le quotazioni provoca un’ebbrezza che fa abbandonare qualsiasi razionalità.

L’andamento del margin debt, l’indebitamento finalizzato agli acquisti in Borsa, era altrettanto straordinariamente chiaro: mentre a gennaio 2015 si trovava ad un livello inferiore ai mille miliardi di yuan, era cresciuto esponenzialmente toccando il massimo con oltre 2.200 miliardi a giugno, per poi collassare dopo i rovesci estivi delle Borse. Mentre ad ottobre era ritornato ai livelli di gennaio, a novembre c’era stato un nuovo aumento che lo ha portato a superare nuovamente i mille miliardi di yuan: se la speranza di una ripresa dei corsi aveva spinto a contrarre nuovi debiti, le nuove perdite mettono una parola fine a queste montagne russe.

La Cina ha problemi finanziari profondi. Così come la crisi americana del 2008 aveva radici nell’eccesso di debito delle famiglie, il sistema cinese soffre per l’eccesso di debito delle imprese: il risparmio delle famiglie ha alimentato un lunghissimo ciclo di crescita trainato dagli investimenti produttivi rivolti all’export. Il meccanismo di crescita si basava sugli investimenti fissi produttivi, pari a circa il 40% del Pil nella media dell’ultimo decennio, finalizzati a soddisfare la crescente domanda prevalentemente estera. Sono stati finanziati da un tasso annuale di crescita del risparmio delle famiglie cinesi ancora più elevato, che spesso ha superato il 50% del reddito. L’enorme debito delle imprese rappresentava lo specchio degli impieghi bancari dell’altrettanto gigantesco risparmio delle famiglie.

Il rallentamento dell’economia mondiale ha inciso sugli equilibri finanziari delle imprese cinesi, ampiamente sottocapitalizzate ed alle prese con un consistente servizio del debito. La ricerca di nuovi driver di crescita, dapprima con gli investimenti pubblici infrastrutturali nel 2009-2010, poi con il boom immobiliare nel triennio successivo, ed infine con la crescita abnorme dei valori borsistici tra la metà del 2014 e l’estate del 2015, è dipesa amche dalla necessità di trovare impieghi diversi e più stabili al risparmio delle famiglie, anche se è rimasto senza risposta lo squilibrio più profondo.

In primo luogo, la mancanza di sistemi di welfare generalizzati impone ancora alle famiglie cinesi tassi di risparmio abnormi. Ci sono poi gli effetti dei rendimenti reali negativi sui depositi bancari, che per anni hanno ampiamente tosato lo stock accumulato: per un verso hanno contribuito a rallentare la crescita dei consumi interni dovendosi ricostituire il risparmio precauzionale, d’altro canto hanno amplificato la ricerca di impieghi maggiormente redditizi, nelle banche ombra, nel settore immobiliare e più di recente sul mercato borsistico. Come già accadde in Giappone, l’eccesso di risparmio rispetto agli asset interni disponibili porta inevitabilmente alla formazione di bolle speculative.

La Banca del popolo cinese ha perseguito con decisione la liberalizzazione del sistema del credito, abbandonando il dirigismo sui tassi per i depositi e gli impieghi, in uno con quella dei cambi dello yuan sul mercato dei capitali. Tutto serviva a conseguire l’obiettivo di far considerare la Cina una economia di mercato. Solo ai primi di ottobre scorso, ad esempio, ha eliminato la storica plafonatura (cap) sui tassi attivi per i depositanti: questa misura che in passato aveva favorito i prenditori di credito e quindi gli investimenti, pur senza erodere i margini di interesse delle banche, aveva progressivamente distorto le scelte di allocazione del risparmio spostandole verso operatori e segmenti a più alto rischio.

Il sistema bancario cinese, fondato sull’eccezionale risparmio popolare, era riuscito con successo a tramutare questi depositi in altrettanti impieghi produttivi, non senza qualche grossa difficoltà sanata prontamente in passato dal governo con la costituzione di bad bank. E’ mancata invece completamente, come in Occidente, qualsiasi modello di democrazia economica che indirizzasse gradualmente il risparmio popolare verso l’azionariato nelle grandi imprese pubbliche o nel finanziamento di grandi progetti infrastrutturali: si è andati a testa bassa verso il modello di mercato, copiando tal quale quello occidentale. Di più, le banche cinesi hanno potuto liberamente utilizzare le più ampie disponibilità di risorse decise dalla Banca del popolo cinese per finanziare acquisti in Borsa, anziché per ridurre il costo del debito contratto dalle imprese.

Dal 2008 non è cambiato nulla: si è fatto poco per riformare il sistema bancario Usa, ma almeno è stata introdotta la Volker Rule; non si è fatto assolutamente niente in Europa, se non decidere che il fallimento delle banche non è più a carico della collettività; in Cina si è inseguito il mito del mercato. Anche a Pechino si sono limitati a guardare incantati le Borse che salivano, finché la bolla non è scoppiata.

Ora si raccolgono i cocci, ma per ricominciare di nuovo, il più velocemente possibile: ad ogni anno nuovo, gli stessi problemi.



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