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I banchieri visti da Jacques Le Goff

Nell’immaginario collettivo gli strozzini sono visti come famelici e spietati figuri, che si muovono negli oscuri bassifondi della criminalità organizzata. Da qualche tempo, tuttavia, nel suo mirino sono entrati gli istituti di credito. Le loro malefatte sono state spesso accomunate a quelle dei cosiddetti “cravattari”. Risparmiatori truffati, conti delle imprese e bilanci delle famiglie in rosso hanno riportato alla ribalta la questione dell’usura bancaria.

Le cronache giudiziarie e politiche più recenti ne hanno dato ampia testimonianza. Pur essendo stata cancellata ogni forma di anatocismo (il famigerato calcolo degli interessi sugli interessi), Michele Ruggiero, un pm di Trani noto per le sue ciclopiche e eclatanti inchieste, ha addirittura accusato i vertici di Bankitalia di “collusione morale” con i presunti reati di usura commessi da Bnl, Unicredit e Mps. Per altro verso, Papa Bergoglio ha definito l’usura “una piaga purulenta che ferisce la dignità inviolabile della persona umana”. Prima di lui, Papa Ratzinger l’aveva fustigata come “un immane flagello sociale, una umiliante schiavitù”.

In un saggio scritto quasi trent’anni fa (“La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere”, Laterza, 2014) Jacques Le Goff ricostruisce magistralmente la storia di un fenomeno che – con la sua miscela esplosiva di economia e religione – ha accompagnato il parto del capitalismo. Secondo il grande medievista francese, chi lo scrutasse con le lenti del “pawnbroker”, il prestatore a pegno descritto nei romanzi inglesi dell’Ottocento o nei film hollywoodiani (per tutti, “L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet), si metterebbe però fuori strada. Non sarebbe in grado, cioè, di comprendere fino in fondo questo “Nosferatu della società cristiana”: vampiro terrificante, un succhiatore di denaro spesso paragonato all’ebreo deicida e profanatore dell’ostia.

Quel fenomeno infatti ha più facce. In un mondo in cui sullo scudo d’oro coniato da san Luigi (1214-1270) è inciso “Nummus vincit, nummus regnat, nummus imperat” (il denaro è vincitore, è re, è sovrano); e in cui l’avarizia – ossia la cupidigia, peccato borghese di cui l’usura è figlia- spodesta dal primo posto tra i sette peccati capitali la superbia  -ossia l’orgoglio, peccato feudale – l’usuraio diventerà un personaggio corteggiato e detestato, potente e fragile. Con un pentimento sincero l’usuraio poteva salvarsi anche in punto di morte.

Del resto, il pentimento senza penitenza conduceva al purgatorio, in cui le pene non mancavano. Non c’era dunque ragione per dubitare della sua buona fede. In fondo, il purgatorio non era che uno dei modi in cui la Chiesa strizzava l’occhio all’usuraio riconoscendone surrettiziamente la funzione sociale. Ma era il solo che gli assicurava la salvezza. Perché esso, come afferma l’abate Cesario di Heisterbach (1180-1240) a proposito di una giovane suora che aveva fornicato con un monaco, è “la speranza”. E la speranza del purgatorio conduceva alla speranza del paradiso. Per l’usuraio, la speranza era doppia: di avere la borsa piena in vita e di godere della beatitudine eterna dopo la morte. Come una rondine non fa primavera, conclude Le Goff, così un usuraio in purgatorio non fa il capitalismo. Ma un sistema economico non ne sostituisce un altro se non alla fine di una faticosa corsa ad ostacoli.

La storia sono gli uomini, e “gli iniziatori del capitalismo sono gli usurai, mercanti dell’avvenire”. Mercanti di quel bene, il tempo, che nel secolo decimoquinto Leon Battista Alberti chiamerà denaro. Questi uomini erano dei cristiani. Ciò che tratteneva le loro energie non erano le scomuniche papali. Era “la paura, la paura angosciosa dell’inferno”.

In una società in cui ogni forma di coscienza era anzitutto una forma di coscienza religiosa, la speranza di sfuggire all’inferno grazie al purgatorio permetterà all’usuraio di essere un protagonista del passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

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