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Tutte le colpe della Germania nell’attacco all’Italia

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Dopo essere stata per anni il porto sicuro per gli investitori del sud Europa di fronte al pericolo di una dissoluzione dell’euro, nei primi nove mesi del 2015 la Germania ha registrato un consistente quanto insolito deflusso di risorse, molto probabilmente dirette ad impieghi nell’area del dollaro. Nel frattempo, c’è stato un nuovo, per quanto poco intenso, afflusso di liquidità proveniente dall’eurozona.

Cominciamo con i dati relativi al debito estero lordo della Germania, che rappresentano altrettanti crediti dei non residenti: fra gennaio e settembre 2015, il suo totale si è ridotto di 200 miliardi di euro. Per essere un porto sicuro, sono davvero tanti i capitali stranieri che hanno lasciato la banchina tedesca. In particolare, ci sono stati: 143 miliardi di minori sottoscrizioni del debito pubblico; 103 miliardi di minori depositi bancari; e 23 miliardi di riscatti netti nei confronti dei Fondi di investimento. Tra le partite in aumento, vanno invece menzionati: 37 miliardi di maggiori debiti della Bundesbank, principalmente verso la Bce a fronte della liquidità derivante dagli acquisti di titoli pubblici nell’ambito del Qe; e 41 miliardi di prestiti intercompany.

Non è ancora noto se la riduzione del debito lordo della Germania verso l’estero sia proseguita allo stesso ritmo anche nell’ultimo trimestre dell’anno: in questo caso, sarebbe stata a mala pena compensata dall’avanzo delle partite correnti, che nel 2014 raggiunse i 215 miliardi di euro.

Per quanto riguarda il saldo attivo della Germania all’interno del Target 2, il sistema che gestisce nell’ambito del SEBC i movimenti interbancari all’interno dell’Eurozona accreditando ed indebitando le singole Banche centrali nazionali, è passato dai 515 miliardi del gennaio 2015 ai 555 miliardi di settembre scorso, con un incremento di 40 miliardi nei primi nove mesi del 2015. L’Italia, di converso, e come già nei momenti peggiori della crisi nel triennio 2010-2012, ha registrato un nuovo deflusso di risorse: il saldo negativo è passato dai 164 miliardi di gennaio ai 236 miliardi di settembre,  peggiorando così di 71 miliardi. Ci hanno fatto compagnia la Spagna con -36 miliardi, la Grecia con -29 miliardi, ed il Portogallo con -9 miliardi.

II recente deflusso di capitali dalle aee più deboli non ha avuto come destinazione prioritaria la Germania: la meta di gran lunga preferita è stata l’Olanda con +60 miliardi; il Lussemburgo, buon terzo in classifica, ha registrato +23 miliardi. Chi ha paura di perdere i suoi capitali li porta in Germania, chi cerca i migliori rendimenti se ne allontana: i tedeschi prosperano sugli altrui timori.

Ci sono state tante buone ragioni per lasciare la Germania e per non individuarla come la solita meta preferita: innanzitutto, i rendimenti negativi sui Bund su una lunga parte della curva delle scadenze devono aver scoraggiato gli investitori stranieri, considerando che quelli sui T-bond statunitensi sono sempre stati superiori e che l’euro ha continuato a deprezzarsi sul dollaro. Lo stesso vale per la raccolta bancaria: il ritiro dei capitali stranieri avvenuto nel corso del 2015 ha riguardato sia i depositi a breve (-47 miliardi di euro) sia quelli a lungo termine (-56 miliardi). Considerato che lo stock di questi ultimi è parecchio inferiore rispetto ai primi, se ne deduce un deciso cambio di paradigma da parte degli investitori: investire in Germania non conviene più.

C’è poi un terzo dato da considerare: nonostante il bilancio della Bce stia aumentando mensilmente di 60 miliardi di euro per via degli acquisti di titoli di Stato attraverso il Qe, è diminuito costantemente lo stock complessivo di liquidità prestata per ragioni di politica monetaria al sistema bancario europeo: dai 753 miliardi di euro del gennaio 2014 è arrivato ai 659 miliardi del gennaio 2015, per scendere ai 638 miliardi di maggio. Le banche tedesche sono scese quasi ai minimi storici, con prestiti di liquidità per appena 31 miliardi.

Infine, c’è un quarto elemento: la gran parte della liquidità immessa mensilmente con il Qe, attraverso l’acquisto di titoli di Stato, ristagna in deposito presso la Bce anche a costo di pagare un interesse dello 0,30%.

Nell’Eurozona, il quadro degli andamenti del 2015 denota una situazione di stallo. I tassi di interesse negativi, soprattutto in Germania, hanno indotto gli investitori ad abbandonarla, sia per evitare le perdite derivanti dalla svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, sia per approfittare della prospettiva dell’aumento dei tassi statunitensi. Per lo stesso motivo le banche tedesche non sono state in grado di rimpiazzare, se non parzialmente, questo deflusso: hanno comunque approfittato delle crescenti preoccupazioni negli altri Paesi europei per la entrata del bail-in bancario. Nel frattempo, la gran parte della liquidità immessa con il Qe è rimasta inoperosa: a questi tassi, e con la situazione economica ancora molto precaria, non conviene rischiarne l’impiego. Anche il volume dei prestiti concessi dalla Bce alle banche è calato continuamente.

Il sistema bancario tedesco è riuscito a riprendersi dopo le vistose perdite derivanti dalla crisi americana del 2008, ma solo per via di timori via via suscitati negli investitori: dapprima quelli suscitati dal pericolo di una fuoriuscita della Grecia dall’Eurozona, poi da quelli di un default sistemico del sistema bancario spagnolo ed infine dalla insostenibilità del debito pubblico dell’Italia. Solo così la Germania ha potuto beneficiare di un eccezionale afflusso di capitali dai Paesi in difficoltà, che ha abbattutto il peso degli interessi sul debito pubblico e sul credito alle imprese tedesche.

Più la situazione dei Piigs si faceva critica, fra trattative estenuanti ed ultimatum che tenevano i mercati col fiato continuamente sospeso, più i capitali dei terrorizzati investitori di questi Paesi cercavano rifugio in Germania.

Mentre oggi tutti scoprono che la Germania ha sostenuto il proprio sistema bancario autorizzando fra il 2008 ed il 2011 interventi pubblici per 620 miliardi di euro, una cifra pari al 24,8% del suo pil, nei mesi scorsi Bruxelles ha continuamente obiettato all’Italia che la nuova normativa europea sul bail-in bancario non le consentiva più di intervenire, neppure con le risorse private del Fondo interbancario di garanzia dei depositi, per evitare l’azzeramento delle obbligazioni subordinate delle quattro piccole banche italiane in crisi: eppure bastava un miliardo di euro, o giù di lì, per evitare l’innesco di una crisi sistemica.

L’impuntatura della Commissione europea, davvero degna di miglior causa, ha acceso un nuovo falò tra gli investitori in Italia, come nel biennio nero della crisi del debito pubblico, per il pericolo che nostra qualche banca stesse per saltare.

Nel 2015, cessato il delirio del biennio nero, i capitali hanno cominciato ad abbandonare la Germania in cerca di migliori opportunità; solo un nuovo incendio sui mercati finanziari è in grado di invertire la tendenza, facendone giungere di nuovi.

E’ andato in scena il solito copione in quattro atti: dapprima si predica il rigore inflessibile; quindi si impone una soluzione che determina lo scompliglio sul mercato, con gli investori terrorizzati dalla prospettiva di perdere tutto; si arriva così alla svendita dei titoli in vista della fuga verso il porto sicuro, la Germania. E’ cambiato solo il fantasma che volteggiava sul palcoscenico: invece del default del debito pubblico, quello sistemico delle nostre banche. La mentalità è cambiata: non è più il lavoro che rende liberi, ma la paura che rende schiavi.

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