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L’Europa (in)difesa. Tutte le mosse di Bruxelles

Che cosa teme Mario Draghi

Mario Draghi ha parlato con il tono del profeta, ha evocato forze potenti, forze oscure che agiscono grazie alla globalizzazione, spingono in basso i prezzi, ostacolano la politica monetaria, la rendono inefficace. Il presidente della Bce ha ripetuto il suo nuovo mantra: non ci arrenderemo, convinto che si possa fare ancora molto, che la cassetta degli attrezzi a sua disposizione non sia affatto vuota, purché la si voglia usare fino in fondo.

Che cosa ha voluto dire Draghi? A chi ha inviato il suo messaggio, quasi un drammatico appello? In primo luogo alla Bundesbank che lo ospitava: Jens Weidmann era lì ad ascoltarlo e alla fine si sono intrattenuti a lungo, raccontano i cronisti. La Buba non è convinta che comprando sempre più titoli e stampando sempre più moneta si possa davvero accelerare la crescita. Pur non seguendo la dottrina keynesiana, anzi al contrario, la banca centrale tedesca riconosce che siamo in piena trappola della liquidità. Il cavallo non beve anche se l’abbeveratoio trabocca. Dunque, ci vogliono altri mezzi per stimolare gli investimenti, punto debole di questo ciclo economico. Finanza pubblica in equilibrio, riforme strutturali, aumento della produttività, è questa la formula magica tedesca. In Germania ha funzionato perché non nel resto d’Europa?

La risposta di Draghi è che la zona euro è disomogenea, manca di un mercato unico del lavoro, la trasmissione della politica monetaria è frantumata, le banche non reagiscono a sufficienza perché sono bloccate da crediti e titoli dubbi, mentre la stagnazione dei prezzi al limite della deflazione peggiora le aspettative. Ecco perché bisogna stampare ancora euro e in modo energico per contrastare le spinte negative, le forze oscure.

È un duello teorico e pratico destinato a non finire perché parte da premesse analitiche diverse. Ma Draghi non voleva tenere una lezione di economia, voleva suonare un campanello d’allarme. Dietro le sue parole c’è lo spettro di una nuova recessione e il suo messaggio è: dobbiamo essere preparati.

Le borse fiutano l’aria e dall’inizio dell’anno prevale la spinta a vendere. Il prezzo del petrolio va verso i 20 dollari e trascina con sé i mercati in via di sviluppo. La Cina si sta fermando, molti osservatori dubitano delle cifre ufficiali e secondo un influente centro studi londinese la vera crescita nel 2015 sarebbe stata del due per cento. Gli Usa, dopo cinque anni di sviluppo ininterrotto, rallentano e con le presidenziali in corso per un anno sono fuori gioco. La Ue resta intrappolata nella palude della stagnazione. Ecco le potenti forze che bisogna contrastare. Ma come?

C’è una scuola di pensiero secondo la quale c’è poco da fare, bisogna lasciare che la recessione arrivi, faccia il suo corso. La politica economica, monetaria e fiscale, può solo attutirne gli effetti anche per questo occorre mettere in ordine le finanze private e quelle pubbliche. Una scuola opposta vuole che si gettino i quattrini dall’elicottero, mettendoli direttamente nelle tasche delle famiglie e delle imprese, senza passare per le banche che le tengono per sé. Lo ha scritto Martin Wolf sul Financial Times. Certo è che la via mediana seguita finora, austerità fiscale e prodigalità monetaria, non sta funzionando, non a sufficienza.

Val la pena fare di più? Si chiede la Bundesbank e la sua obiezione va presa sul serio. Draghi lo sa, infatti più volte ha detto che la Bce non può essere lasciata sola, passando la palla ai governi. Ma di fronte alle forze che ha evocato ieri, allentare un po’ le redini non sarà sufficiente. Non basta qualche dose di flessibilità caso per caso. Ci vuole un salto nella politica economica. Con una Europa in frantumi non è possibile. Recessione sia e recessione sarà.

Stefano Cingolani

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