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Ddl Cirinnà, evviva le discriminazioni?

Diritti, diritti ed ancora diritti. Diritti per superare vetuste e non più accettabili discriminazioni. Questo il tormentone dei “combattenti” per le coppie di fatto. Il leit motiv dei sostenitori di quel progetto di legge Cirinnà che -ironia della sorte- rischia di divenire esso stesso elemento di pesanti disparità.

Nel rispetto delle libertà dei singoli, non vi è dubbio che il riconoscimento di particolari ed essenziali diritti possa rappresentare un passo nella direzione di una maggiore tutela per alcuni cittadini. Ciò vale anche per il riconoscimento di “dignità” e di specificità giuridiche all’istituto delle unioni di fatto siano essere etero o gay. Per tanti versi una “normalizzazione” dell’esistente.

Ma come si dice, non tutto ciò che luccica è oro. Infatti l’aspetto più delicato, e perciò stesso più controverso, della vicenda -come lo fu per l’aborto ed in parte, anche per il divorzio- è la questione relativa ai figli. E, nel caso di specie, anche ai figli del partner.

Al di là dell’aspetto ideologico – inevitabile quando in ballo vi sono valori tanto delicati che vanno a modificare la cultura di un popolo con ripercussioni forti nel sistema sociale “costituito” (si sarebbe detto negli anni ’70 del novecento)- il rischio vero è quello di “creare” figli assai sui generis: figli con tre madri, con una madre e due padri e persino figli con due madri ed uno spermatozoo “segreto” (il donatore ignoto di seme) come padre.  Situazioni sideralmente lontane rispetto a quanto, nei decenni, si è registrato nelle cosiddette “famiglie allargate” dove il figlio comunque sapeva con esattezza chi fossero i propri genitori naturali e di riferimento anche da un punto di vista legale.

Un rischio che oltre a creare una sorta di figli e figliastri (nelle famiglie allargate non vi sono infatti adozioni del figlio del partner) ingenera una forte discriminazione tra le stesse coppie gay: quelle lesbo, infatti, con un semplice rapporto extra-coppia oppure attraverso l’inseminazione artificiale possono avere un figlio legittimo (perché riconosciuto solo dalla madre che lo partorisce) con la possibilità, prevista dalla Cirinnà, di adozione da parte della partner. Mentre le coppie omosessuali maschili risultano, nei fatti, impossibilitate alla generazione e, per chi non ha figli pregressi, all’adozione da parte del partner.

 Discriminazioni a gogò quindi, introdotte, paradossalmente, dalla normativa che doveva, utopicamente, superare le diversità anche giuridiche.

E c’è da immaginare che non sarà neppure l’inesauribile aspirazione ad altri e nuovi “diritti” come l’utero in affitto od altre “diavolerie” tecnologiche del genere (con tutto il rispetto per le comunità nazionali che le praticano ma non per questo possono e debbono essere considerate più civili di altre) a cancellare o superare differenze (naturali e quindi giuridiche) reali, insopprimibili, ineludibili, che invece, come ci insegna la cifra della nostra millenaria civiltà, hanno da essere valorizzate, governate e normate nella loro unicità.

L’omologazione anche nei diritti oltre a non funzionare rischia di divenire la negazione dell’altro nella sua unicità e specificità. Un’incultura che l’Italia non merita.

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