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La vittoria di Sala alle primarie è una sconfitta per Pisapia

Dopo cinque anni, settemila milanesi in meno sono andati a votare per le primarie della sinistra. Se si contano poi le truppe cammellate di Chinatown, i votanti sono ancora meno. Alla fine mi pare che Beppe Sala prenda 20 mila voti in meno del Giuliano Pisapia del 2011: anche se una parte così ampia del gotha della finanza si è mobilitato (con contorno di media controllati) per lui e Francesca Balzani, i risultati sono stati deludenti. D’altra parte, come ricordava Giulio Andreotti, i banchieri di tutta Italia sono meno numerosi dei tassisti romani.

La figura di Sala non ha acceso il cuore del popolo di sinistra: con la sua aria triste quasi da uno che è costretto a mettersi a fare politica in età non più giovane per motivi non del tutto chiarificati, obbligato alle mascherate (tipo maglietta di Che Guevara) impostegli dai suoi spin doctor, l’ex manager della Pirelli ha offerto l’immagine dell’assolutamente falso. E non avrebbe vinto neanche contro l’improbabile candidata di Pisapia, la Balzani (cocchina della studio Uckmar, snobbetta, protetta delle varie signore Fulvie -le Crespi, le Archinto- della borghesia milanese, inventata da un sindaco in fuga e perciò detestato dai suoi già più fedeli assessori: dalle De Cesaris agli Alfonso che si sentivano abbandonati), se non avesse arruolato -puntando sulla sua boriosa vanità – Pierfrancesco Majorino (vediamo se adesso se lo nomina vicesindaco come si spettegola tra i progressisti milanesi) per dividere la sinistra del suo schieramento.

Fermare gli antirenzisti (così lo strano blocco sociale formatosi intorno a Sala ha motivato la sua battaglia), fermare i renzisti (al fondo questo il confuso messaggio del confuso Pisapia e della sua confusa pupilla Balzani), fermare gli antirenzisti non perfettamente antirenzisti anche a costo di far vincere i renzisti (questo il messaggio dell’unico politico più confuso di Pisapia: Majorino): è evidente che questo tipo di dibattito non poteva accendere il cuore del popolo della sinistra, anche se poi risentimenti, interessi, “facciamolo perché è tanto alla moda”, “mi si nota di più se ci sono o non ci sono” hanno finito per mobilitare un bel po’ di gente (e su questo dovrebbe riflettere anche il centrodestra).

Comunque mentre le primarie del 2011 sono state veramente sentite dalle persone di sinistra, e lo scontro tra l’establishment bersaniano-ligrestiano rappresentato da Stefano Boeri, contro borghesia radical chic, veterani del sessantottismo, estremismo giovanilistico un po’ scoppiato e truppe bazoliane schierati per il futuro sindaco, è stato uno scontro ben più sentito e vivace. Certo anche allora Pisapia vinse perché divise il voto del suo antagonista, con la scelta di presentarsi (ispirata da Nanni Bazoli) di Valerio Onida che ebbe contro Boeri lo stesso effetto di quella di Majorino contro la Balzani.

La giunta arancione è stata un fallimento registrato dalla fuga dei suoi principali protagonisti (Maria Grazia Guida, Bruno Tabacci, Ada Lucia De Cesaris e infine lo stesso sindaco), i suoi successi (l’Expo e il rilancio urbanistico di Milano) sono integralmente frutti della giunta Moratti (con qualche ruolo della giunta Albertini e di quella regionale). In questo senso il fatto che la linea Pisapia sia sconfitta dal city manager morattiano registra la realtà.

Eppure nonostante il suo fallimento, la giunta Pisapia in parte ha rappresentato – grazie soprattutto allo sbandamento provocato essenzialmente dall’attacco giudiziario-spionistico-internazionale al cuore del berlusconismo (che peraltro ha le sue belle colpe) – una pausa che consentiva alla città di consolidare con qualche ingentilimento le scelte strategiche impostate dal centrodestra.

Oggi siamo di fronte a un tentativo nuovo e diverso: quello di creare un blocco urbano di potere che risponda più a Roma che ai cittadini milanesi. Una politica che ripeta in grande uno stile che più che italiano appare etruriano, una certa volontà di semplificare il comando politico-economico esercitandolo dall’alto, sottraendolo a una vera dialettica politica, spesso in modo subalterno a rilevanti influenze straniere.

E’ interessante in questo senso rilevare alcune considerazioni di Sala che collegano il suo passato di manager Pirelli al suo futuro di aspirante sindaco di Milano: la grande industria della gomma milanese indica la strada da seguire, investendo nell’innovazione si diventa una multinazionale che conta nel mondo.
C’è senza dubbio in questa affermazione un nucleo forte di verità, descrive però bene il passato del gruppo industriale in cui ha lavorato.

Il presente e il futuro sono un po’ differenti: alcune delle principali attività innovative sono state cedute arricchendo in modo almeno non elegante settori dell’azionariato e del management, anche da qui si è passati all’operazione sostanzialmente fallimentare del tentato controllo di Telecom Italia e si è arrivati poi a vendere la maggioranza della finanziaria di controllo, la Camfin, alla ChemChina Corporation (società “figlia” della Sasac -State-owned Assets Supervision and Administration Commission- commissione che gestisce una grossa fetta delle aziende di stato cinesi).

Il tramonto della italianità della Pirelli si collega alla crisi di Mediobanca e ai maldipancia francesi di Generali. Il problema non è quello della nazionalità degli investimenti che sono sempre i benvenuti, ma della decisionalità che tra finanza e industria resta in Italia, pensare che il mondo sia governato solo dalla pur magnifica mano invisibile del mercato (da difendere e consolidare) è in generale esagerato, appare particolarmente ridicolo quando il mercato si chiama Sasac -State-owned Assets Supervision and Administration Commission- (per chi non sa l’inglese “commissione di supervisione e amministrazione degli asset dello Stato cinese”)
Gli interessi hanno sempre pesato nei conflitti politici milanesi: il vecchio Salvatore Ligresti, con buoni appoggi nel centrodestra, arrivò nel 2011 a far candidare dal centrosinistra Bruno Ferrante suo qualificato collaboratore.

Però anche la trasversalità degli interessi era una garanzia di dialettica, mentre adesso la volontà di costruire un sistema chiuso (per capirsi non pensate solo a esempi classici di questo tipo come Torino e Bologna, ma soprattutto al sistema delle banche toscane dal Monte dei Paschi a Banca Etruria) può (anche grazie all’appoggio di un governo che vuole dominare dall’alto tutta la economia-società italiane) provocare guasti profondi a una Milano che è forte se è libera.

In questo senso va considerata anche la questione dei cinesi alle primarie che non può essere trattata in modo razzistico o complottitistico (sono mobilitati dal Sasac -State-owned Assets Supervision and Administration Commission) ma va però valutata sul metro della libera dialettica politica. Un conto se i lavoratori cinesi talvolta un po’ supersfruttati dai loro datori di lavoro di uguale etnia, vanno a votare a sinistra, mentre i vari baristi o tintori che privilegiano la libera impresa, votano a destra. Un altro se oltre ai blocchi di interessi poco trasparenti si aggiungono anche altrettanto blocchi scarsamente trasparenti di tipo etnico.

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