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Vi racconto la semiotica elettorale di Bernie Sanders

Mentre negli Stati Uniti sono alle porte nuovi appuntamenti delle elezioni primarie per selezionare i candidati alla Casa Bianca, lo diciamo subito: qui non si fanno previsioni, niente sentenze anticipate, niente divinazioni esperte su quel che sarà. Qui ci fermiamo a cercare di definire quel che Bernie Sanders ha fatto, fino a oggi, in questa corsa presidenziale. Quel che sarà, lo leggeremo nelle cronache. Tra pochi giorni vanno alle urne Nevada e South Carolina. Poi, arriverà il “Supermartedì”, con il voto in 13 Stati tra cui Texas e Massachusetts. Nuovi capitoli di questa storia.

#FeeltheBern è un hashtag che è divenuto, in una manciata di giorni, uno dei claim – in gergo pubblicitario “claim” è l’asserzione chiave di una campagna – della corsa di Sanders in queste primarie di esordio tra Iowa e New Hampshire. E questa è una storia davvero curiosa. Racconta Observer.com che l’hashtag è venuto in mente – nel bel mezzo di una conversazione su Facebook tra gli organizzatori di People for Bernie, un gruppo militante di sostenitori del senatore del Vermont – a Winnie Wong, una digital strategist e organizzatrice di gruppi di sostenitori come Women for Bernie e African Americans for Bernie. Adottato senza esitazioni dal team di Sanders, In pochi giorni l’hashtag ha invaso i social media e infiammato la campagna.

Con l’aiuto di Eva Ruth Palmieri, traduttrice italo-americana di stanza a Roma, abbiamo provato a raccapezzarci nel termine. Nella sua intraducibilità letterale, l’espressione, che ovviamente gioca d’assonanza con “Bernie”, il diminutivo del nome di Sanders, ci dice Palmieri, suona come “farsi travolgere dalla passione” ma anche “sentire il carisma”. Sì, un sentimento forte, trascinante. Un sentimento coinvolgente per il più improbabile candidato alla Presidenza, ebreo che si definisce socialdemocratico, aggressivo verso le élite – senza il cui sostegno ha finora raccolto, a forza di piccole donazioni, oltre 30 milioni di dollari, poco meno dei finanziamenti raccolti da Clinton -, che parla di salario minimo e sanità pubblica, di welfare universale e lavoro. Tutto il contrario del candidato da manuale per la corsa alla Casa Bianca. Roba da far quasi apparire lo stesso Obama come un prudente moderato. E frettolosamente, per queste ragioni, accatastato dai commentatori nel cesto dei candidati anti-sistema insieme al repubblicano Donald Trump che, invece, fa leva su sentimenti foschi, violenti e intrisi di ostilità e paura, diretti alla pancia profonda dell’America di destra e che è riuscito a prendere il posto degli evaporati Tea Parties.

Ma il sentiment di Bernie non è semplicistico né superficiale come quello di Trump. Sanders è stato, fino a ora, capace di calarsi profondamente in un’America impoverita e declinante. Tra working-class e middle-class, malpagata, sofferente per i costi astronomici dell’istruzione superiore. Ha preso i temi – in fin dei conti suoi da sempre – di movimenti che non ce l’hanno fatta ad uscire dalla propria nicchia, come Occupy Wall Street, e li ha trasformati in una campagna mainstream, di massa. Sì, una massa di persone, di giovanissimi che si sono lanciati nella militanza per la prima volta, a fianco di attivisti consumati. Tra cui un gran numero di ragazze maldestramente insultate dall’icona femminista d’élite, Gloria Steinem, clintoniana di ferro, che ha sostenuto, con un piglio degno di uno Scilipoti o di un Razzi, che vanno ai raduni di Sanders per incontrare ragazzi.

“They all come to look for America” recita il ritornello della canzone di Simon and Garfunkel che accompagna uno degli spot di Sanders. Nostalgie di un vecchio sessantottino?

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=2nwRiuh1Cug[/youtube]

Tutt’altro. Guardate bene quelle immagini: un mare di persone raccolte nei raduni di Bernie. Everyday people, gente comune che diventa protagonista intorno al candidato.
Facciamo un’altro passo tra social media e siti web. E precisamente together.vote. Utilizzando il dominio .vote, la campagna di Sanders ha creato una pagina basata su un altro hashtag: #votetogether. Pagina web dominata da un video composto da un mosaico di facce che si formano, si sovrappongono, si fondono senza soluzione di continuità.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=ptJf3ju3X1g[/youtube]

E la colonna sonora di questo minuto di volti di ogni tipo è la voce di Sanders che, in un comizio, afferma, vigoroso e ispirato “Il nostro compito non è di dividere. Il nostro compito è di unire la gente. Se non gli permettiamo di dividerci per razza, orientamento sessuale, genere. Se gli impediamo di dividerci perché siamo nati o no in America. Quando ci schieriamo insieme come bianchi, neri, ispanici, gay e etero, donne e uomini. Quando ci uniamo e chiediamo che questo paese funzioni per tutti e non per i pochi, noi trasformiamo l’America. E tale è la ragione di questa campagna: unire la gente”. Il tutto chiuso, appunto, dall’hashtag #votetogether.

Abbastanza lontano, perlomeno sul piano visivo, della campagna obamiana centrata sulla celeberrima elaborazione grafica multicolore del volto del candidato e dalla parola “Hope”. E tutto il contrario dell’algida, elitaria e stanca leadership clintoniana. Il volto di Sanders è quello di milioni di americani. Quegli infiniti volti che fondendosi tra loro, danno faccia alla sua campagna. Quei milioni di americani che Sanders intende far sentire protagonisti, unire e condurre alla ricerca del proprio Paese: “They all come to look for America”. Bernie “è” l’America. E questo è il suo carisma.

Se funzionerà lo sapremo nelle prossime settimane. Intanto il senatore del Vermont ha messo la vincitrice-fin-troppo-annunciata in guai grossi. Prima, pareggiando in Iowa e poi, stracciandola in New Hampshire, dove ha unito il voto di diverse classi di età, dei bianchi e delle minoranze. Fino a umiliare la Clinton nel voto delle donne, surclassandola di 11 punti.

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