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Elogio della nuova Unità (garantista) di D’Angelis

Si fa presto a dire, come mi è capitato spesso di sentire conversando alla Camera con parlamentari della minoranza del Partito Democratico, che le ceneri del povero Antonio Gramsci si stanno rivoltando nell’urna che le contiene a Roma, nel cimitero ex inglese del Testaccio, per la “fine” che avrebbe fatto con Matteo Renzi alla segreteria del partito ed Erasmo D’Angelis alla direzione la sua Unità. Sua, perché lo storico quotidiano dei comunisti italiani fu orgogliosamente fondato proprio da Gramsci il 12 febbraio 1924, due anni prima che, a dispetto del suo mandato parlamentare, venisse arrestato per antifascismo. Che gli costò nel 1927 la condanna del tribunale speciale istituito da Mussolini a 20 anni di carcere. Dei quali ne scontò quasi la metà tra vari penitenziari, morendo in una clinica romana il 27 aprile 1937, letteralmente consumato nella sua già malferma salute dalle condizioni fisiche alle quali l’aveva ridotto il regime di Mussolini. Che si decise a restituirgli formalmente la libertà solo quando non gli serviva più, sei giorni prima del decesso.

Fu una storia, quella di Gramsci, d’indicibile crudeltà, ed anche doppiezza, che solo un regime totalitario come quello fascista poteva produrre, in concorrenza – occorre dirlo – con il comunismo, sopravvissuto a lungo al fascismo e al nazismo.

Ma, ben prima e ancor più che dall’Unità di conio renziano, le ceneri del povero Gramsci, già deluso in vita per ciò che accadeva in Russia e per ciò che facevano in Italia, e altrove, i suoi compagni scampati all’arresto, sono state rivoltate dai prodotti della sua ideologia. Per esempio, rimanendo ai fatti successivi alla sua morte, dall’accordo fra Stalin e Hitler per la spartizione della Polonia, antipasto della seconda guerra mondiale; dall’uso fatto dei suoi Quaderni da Palmiro Togliatti a Mosca e poi a Roma, amputandoli praticamente di tutto ciò che non gli conveniva fosse saputo; dal sostegno dato nel 1956 dalla sua Unità, diretta da Pietro Ingrao, all’invasione sovietica dell’Ungheria, colpevole di volere non uscire dal comunismo, ma solo di realizzarne uno meno oppressivo e indecente.

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Per avvicinarci di più ai nostri tempi, non credo che a Gramsci e alle sue ceneri sia piaciuta, fra l’altro, l’Unità manettara del 1992 e anni successivi, lesta a cavalcare tutte le vicende giudiziarie che potessero liberare i comunisti, o come altro avevano nel frattempo deciso di chiamarsi, degli avversari vecchi e nuovi: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi, tanto per fare due nomi.

C’è voluto l’arrivo di Renzi alla guida del Pd, ultima evoluzione di quello che fu il Pci, e di Erasmo D’Angelis alla direzione dell’Unità per ritrovare sullo storico giornale di Gramsci, almeno nelle pagine interne, tracce visibili di garantismo, contrapposto alla “deriva giustizialista” appena rifiutata dal presidente del Consiglio come tratto distintivo di una sinistra di governo. Che ha per troppo tempo scambiato per condanna un avviso di garanzia, tradendo con questo la parola stessa di garanzia.

E’ significativo che questa puntualizzazione sia stata fatta da Renzi davanti agli allievi, chiamiamoli così, della scuola di formazione del Pd, anche a costo di contraddire alcune cose da lui dette o ispirate sollecitando le dimissioni, e persino ottenendole, di ministri sotto schiaffo e neppure indagati: cosa che gli ha sadicamente e prontamente rinfacciato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano.

Spero che questa sia pur tardiva correzione di rotta non costi troppo al giovane segretario del maggiore partito italiano e presidente del Consiglio. Che peraltro, non essendo neppure un parlamentare, non ha uno straccio d’immunità con cui difendersi da eventuali iniziative giudiziarie avventate, vista la facilità con la quale da qualche tempo gli inquirenti riescono ad aggirare o comunque a vanificare le competenze del tribunale dei ministri, e le relative procedure di garanzia. Ne sanno qualcosa ex ministri finiti sotto processo ordinario per fatti in fondo riferibili alle loro attività di governo, ma con imputazioni diverse, legittimate da una giurisdizione dalla quale è diventato per noi giornalisti assai rischioso dissentire per la facilità con la quale si può finire denunciati e persino condannati per diffamazione. Altro punto, questo, delle azioni penali e civili promosse da magistrati e risolte da loro colleghi, sia pure di distretti diversi, su cui il legislatore dovrebbe prima o poi decidersi a intervenire. O il Consiglio Superiore della Magistratura a vigilare.

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C’è tuttavia una cosa che anche della nuova Unità non condivido. Certe scivolate, per esempio, di Fabrizio Rondolino. Che qualche giorno fa ha contestato pure lui alla candidata grillina al Campidoglio di avere esercitato la sua professione forense con avvocati difensori di Cesare Previti, nel cui studio la stessa interessata ha riconosciuto di avere fatto pratica, prima che egli diventasse imputato e poi condannato eccellente. Essere costretto da Rondolino, sull’Unità ora di D’Angelis, a difendere la candidata di Grillo al Campidoglio mi sembra veramente il colmo, almeno per i miei gusti politici.

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