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Vi spiego le vere mire di Putin con l’ultima mossa in Siria. Parla Utkin

Vladimir Putin lunedì ha annunciato la decisione di ritirare gran parte del contingente russo in Siria. “Considero che gli obiettivi fissati dal ministero della Difesa siano generalmente compiuti” ha detto Putin. La decisione del capo di Stato russo è stata rapidamente ripresa da tutti i media internazionali, ed è argomento centrale per delineare le future dinamiche geopolitiche globali. In una conversazione con Formiche.net il giornalista russo Evgeny Utkin, esperto di geopolitica, già docente all’Università Statale di Mosca “Lomonosov” e commentatore per diverse testate italiane ed internazionali, ha sottolineato alcuni punti centrali della decisione del presidente russo.

Quali sono i veri obiettivi della mossa a sorpresa del presidente russo?

Le più importanti decisioni prese da Putin sono solitamente mosse a sorpresa: pensiamo al 30 settembre, nessuno si aspettava l’inizio di bombardamenti russi in Siria fino al giorno prima. Ma in questo caso la scelta del ritiro e rimodulazione del contingente era piuttosto prevedibile per gli osservatori attenti. È stato proprio l’accordo raggiunto con gli Stati Uniti per l’entrata in vigore della tregua temporanea il 27 febbraio a dare quella prevedibilità. Un momento ottimo per allentare la presa. D’altronde ultimamente l’obiettivo principale della Russia era diventato bloccare in anticipo le velleità turche (Ankara settimane fa aveva preannunciato la possibilità che propri contingenti potessero entrare in Siria, ndr) ed interrompere le linee di alimentazione di armi e finanziamenti all’Isis. Ora, grazie all’accordo con Washington, il cessate il fuoco congela la situazione, e Ankara è bloccata. Missione compiuta, sotto questo punto di vista.

Aspetti politico/diplomatici e militari si intrecciano in questa situazione, comunque.

Certamente. Dal punto di vista militare, la Russia ha ottenuto ciò che voleva. Ha tagliato fuori la Turchia, ha colpito pesantemente il traffico di petrolio dello Stato islamico, che è anche una questione interna, perché se aumenta la vendita di contrabbando cala il prezzo del prodotto, e ha rafforzato la posizione di Damasco. Oltre 10 mila chilometri quadrati di territorio sono stati riconquistati dal governo siriano, grazie all’intervento militare russo. La Russia aveva annunciato da subito che non sarebbe rimasta a lungo in Siria, e dopo cinque mesi e mezzo di operazioni se ne esce, mantenendo un’impronta militare sul paese nelle basi di Tartus e Latakia da usare come postazioni per future operazione di anti-terrorismo. Una mossa che la rafforza anche dal punto di vista politico, svincolandola da legami sul campo in fase di negoziati, e garantendo al governo siriano di negoziare da una posizione certamente rafforzata.

Sostenere Damasco dunque era l’obiettivo centrale?

Insieme a combattere lo Stato islamico. Prima del 30 settembre la Siria era molto vicina allo scenario libico pre-caduta di Gheddafi. Il rischio era che il paese crollasse in una fase completamente fuori controllo. L’intervento russo per questi aspetti ha fatto da stabilizzatore. Inoltre lo Stato islamico è anche un problema di politica interna per la Russia, che non è poi così distante geograficamente dalla Siria: in molti cittadini russi sono partiti a combattere il jihad nel territorio siro-iracheno, e la possibilità che tornino in patria e compiano attentati o inizino una rivolta armata è una preoccupazione per il Cremlino.

I cittadini russi come hanno preso la notizia del ritiro?

La questione siriana non è troppo centrale nel dibattito pubblico russo, anche se la maggior parte della popolazione sostiene la campagna anti-terrorismo. In fondo sono morti soltanto due militari, un numero minuscolo che non turba l’opinione pubblica, e anche dal punto di vista della spesa, nonostante le casse russe in situazione non rosea, il presidente ha sempre spiegato che il costo dell’operazione in Siria era lo stesso che Mosca avrebbe sostenuto per un’esercitazione su ampia scala e di più lunga durata. Se si paragonano questi due aspetti alla minaccia del terrorismo di ritorno, si capisce perché i cittadini russi non hanno visto negativamente l’intervento siriano. Ciò nonostante credo che la gente sia sollevata, come lo sono anch’io, per la decisione di ritirarci, perché in tanti temevano che potessimo inciampare in Siria e che la questione diventasse un secondo Afghanistan (riferito alla campagna del 1980, considerata dai russi fallimentare sotto tutti i punti di vista. ndr).

E i profughi? L’azione russa ha prodotto anche lati negativi in Siria: l’ondata di fuga in massa da Aleppo, per esempio.

Ci sono state accuse contro l’azione di Mosca, ma fondamentalmente i russi sostengono che nonostante si sia incrementato nuovamente il flusso dei migranti dalla zona di Aleppo, in verità già dilaniata da anni di conflitto, il trend dei profughi non è aumentato: non è stato per colpa di Mosca che la gente è fuggita dalla Siria.

E l’appoggio ad Assad?

La Russia ha scelto di appoggiare Assad soltanto perché era l’unico interlocutore legittimo, legalmente eletto, nonostante sia un personaggio scomodo e non sia di certo il migliore amico di Putin.

Prendendo in prestito un termine utilizzato da Barack Obama per descrivere il ruolo americano in altre aree del mondo, qualcuno sostiene che Putin con l’intervento in Siria sia diventato il “pivot” mediorientale? 

La Russia di Putin di fatto sta avendo un ruolo centrale in Medio Oriente: l’inizio dell’intervento ha mosso le dinamiche del conflitto siriano come niente prima, e con ogni probabilità anche la decisione del parziale ritiro farà altrettanto, forse sui tavoli del negoziato politico. Probabilmente Putin ha sfruttato una maggiore consapevolezza delle dinamiche locali, ottenuta attraverso la storica influenza russa sulla Siria: una percezione che manca ad Obama. A me sembra che il presidente americano sia o disinteressato o mal consigliato su quello che succede in Medio Oriente, mentre Putin ha ottime conoscenze e bravi consiglieri. Personalmente, inoltre, non capisco perché l’America voglia governare le dinamiche a così grande distanza dal proprio territorio, sotto i confini russi: il risultato è che si muovono come un elefante in una cristalleria, e spesso rompono cocci.

Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera ha firmato un articolo in cui dice: “Putin continua a giocare molto bene le sue carte, tanto che i negoziati in corso a Ginevra saranno adesso profondamente condizionati dalle nuove mosse russe”. Putin sta imponendo la sua politica?

Non bisogna dimenticare che poco prima di dare il via alle operazioni militari russe in Siria, Putin aveva tenuto un accalorato discorso alle Nazioni Unite in cui proponeva una coalizione globale, in stile “Guerra Mondiale” per combattere lo Stato islamico. Non solo la sua proposta non è stata accolta, ma il suo appello è passato quasi inascoltato. Poi, dopo l’inizio delle operazioni e visto che il ruolo russo faceva da game changer nel conflitto, tutti hanno iniziato a cercare un dialogo con lui: è brutto dirlo, ma ha dimostrato che nel mondo comanda chi è più forte. La politica di Putin è per certi versi molto semplice e quasi prevedibile, nonostante tutto: difendere gli interessi in Russia e fare il minimo indispensabile fuori. Non c’è una volontà di imperialismo, come qualcuno sostiene, il problema è invece che l’Europa è molto debole e fatica nel trovare decisioni univoche.

Con l’impresa siriana, anche se la guerra è tutt’altro che conclusa, Putin ha recuperato anche spazio e credito in Occidente? La missione in Siria è stata una sorta di espiazione per comportamenti non integerrimi (si pensa all’Ucraina) e un tentativo di tornare a giocare un ruolo centrale nelle dinamiche globali e non essere più inviso in Occidente?

Ormai John Kerry e Sergei Lavrov passano più tempo insieme che con le loro mogli, gli Stati Uniti e la Russia hanno un’interlocuzione continua. Certo che se questo ritiro si porterà dietro una sorta di soluzione politica della crisi, Putin verrà ricordato come pacificatore e risolutore. La tempistica è perfetta, così come ha scelto il momento giusto per entrare (quello in cui Assad stava per capitolare lasciando il paese senza un suo interlocutore di riferimento), l’attuale tregua è il momento giusto per uscire militarmente dal Paese. Se la tregua regge, come tutti ci auguriamo fermamente, potrà dire che regge grazie alla sua uscita e al suo più intenso lavoro diplomatico; se non dovesse tenere potrà sempre dire che senza i suoi soldati sul campo torna il caos precedente all’ingresso dei russi. Magari in futuro i militari russi rientreranno alla guida di un contingente di pace, insieme ad americani ed europei, magari con i Caschi Blu dell’Onu. Voglio sperare che questo sia uno dei passaggi conclusivi della guerra, di cui tutti aspettiamo la fine.

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