Skip to main content

Jobs Act, ecco costi, risultati e polemiche

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha raccontato che, durante un recente incontro Italia-Cina, alcuni ministri del governo di Pechino gli hanno chiesto con insistenza informazioni sul Jobs act, a suo dire per poterlo copiare. Una boutade propagandistica, che Michele Tiraboschi, giuslavorista e allievo di Marco Biagi, ridicolizza sull’ultimo numero di Panorama: «Fare previsioni è molto difficile, anche per un ministro esperto come Padoan”.

Però, a difesa della sua autorevolezza e reputazione internazionale, dovrebbe sapere che in Cina esiste da tempo il contratto a tutele crescenti: un mese di preavviso e una mensilità per ogni anno di servizio, entro un tetto massimo di 12 mesi, per licenziare comodamente un lavoratore». Ma questa, a ben vedere, è forse la critica più lieve che Tiraboschi muove al Jobs act, stroncato già nel titolo come «il più costoso dei flop» del governo di Matteo Renzi.

GLI OBIETTIVI

Come si spiega un attacco così duro? Tiraboschi non è certamente catalogabile come un giuslavorista di sinistra duro e puro, meno che mai vicino alla Cgil di Susanna Camusso: la flessibilità del lavoro e l’abolizione dell’art. 18 fanno parte, da sempre, del suo bagaglio culturale di giuslavorista moderno. Per questo, le sue critiche non appaiono dettate dall’ideologia, bensì dall’esperienza pratica, soprattutto dai numeri. Da mesi, Renzi non perde occasione per sottolineare i risultati del Jobs act in termini di nuovi posti di lavoro.

 

COSA DICE RENZI

A fine dicembre 2015, nel fare il bilancio del suo governo, parlò di 300 mila occupati in più, con la disoccupazione in discesa dal 13,2 all’11,5%. A metà febbraio, mentre era in visita a Buenos Aires, gonfiando le cifre, disse: «Ci sono 750 mila posti di lavoro in più a tempo indeterminato; chi diceva che il Jobs act avrebbe portato precarietà si sbagliava, non è così». Va poi riconosciuto che il Jobs act, con l’abolizione dell’articolo 18, è stato giudicato con favore da tutti gli osservatori internazionali, compresa Angela Merkel, per la quale è stato il «compito a casa»meglio riuscito di Renzi.

IL COSTO

Ma Tiraboschi guarda ai numeri: «L’Inps parla ora di oltre 1,4 milioni di contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015, di regola trasformazioni di rapporti già in essere, per un costo pari a 18 miliardi di euro. Il risultato è un buco di 3 miliardi rispetto alle stime del governo, a fronte di soli 186 mila occupati in più rispetto al 2014”. Il costo di 18 miliardi si riferisce al triennio di vigenza della decontribuzione piena per le imprese private che nel 2015 hanno fatto nuove assunzioni, oppure semplicemente trasformato i contratti precari già in essere in quello a tutele crescenti, dove dopo tre anni è prevista libertà di licenziamento, a fronte di un indennizzo economico. Regole che non si applicano al pubblico impiego, escluso dal Jobs act per ragioni finora mai spiegate, comunque tali da creare un doppio mercato del lavoro, che conserva i privilegi del passato per 3,5 milioni di dipendenti pubblici.

I NUMERI

Rispetto ai 300 mila (poi saliti a 750 mila) posti di lavoro in più vantati da Renzi, i 186 mila a cui fa riferimento Tiraboschi sono quelli certificati dall’Istat e dall’Inps (da quest’ultimo in base ai contributi previdenziali versati, perciò un dato non opinabile). Dunque, se il numero di Tiraboschi è inferiore a quelli citati dal premier, non dipende dai soliti gufi. Oltre alla credibilità delle fonti, c’è il buon senso: in una fase di crisi economica e di stasi della produzione e del pil, sarebbe stato ben strano che le aziende private assumessero circa 750 mila lavoratori in più, riducendo così la produttività e la competitività, invece di aumentarla. Un aspetto che induce Tiraboschi a guardare avanti con scetticismo: «Difficile valutare positivamente questi risultati. A maggiore ragione se si analizzano le tendenze di inizio anno: ridotta la decontribuzione, calano drasticamente anche le assunzioni a tempo indeterminato. È presto per tirare conclusioni, ma il timore che senza la droga fiscale il cavallo non corra più è evidente. Su questo aspetto, azzardiamo ora una nuova previsione: essendo in realtà tali contratti molto meno stabili di quanto raccontato dalla retorica governativa, in virtù di una più estesa flessibilità in uscita, vedremo tra un paio d’anni un’esplosione di licenziamenti».

LO SCENARIO

Da qui l’urgenza, più volte richiamata da Tiraboschi anche in passato, di politiche attive del lavoro, che all’inizio era previsto affiancassero il Jobs act, ma che ancora non sono state messe in campo dal ministero del Lavoro. Con il rischio che alla fine, fatta salva l’abolizione meritoria dell’articolo 18, il Jobs act si riveli una riforma costosa per lo Stato, e controproducente sul piano politico. In vista delle elezioni del 2018, questa riforma doveva essere un fiore all’occhiello di Renzi. Ma se la previsione di Tiraboschi («esplosione di licenziamenti» tra due anni) si dovesse rivelare azzeccata, potrebbe diventare un boomerang per chi l’ha fatta. E forse non è un caso se l’ipotesi di elezioni anticipate nel 2017 ha cominciato a circolare.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)



×

Iscriviti alla newsletter