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Ecco gli effetti della primavera araba in Tunisia

Sulla sponda sud a noi più vicina c’è un Paese che, con umiltà e coraggio, avanza. È la Repubblica tunisina. Un Paese che prova a cambiare la pagina del suo destino. Il Paese dei gelsomini, dalla popolazione con un carattere così mite da aver sorpreso il mondo quando, a testa alta, rovesciò un regime di ferro. Era il 2011, l’anno in cui proprio dalla Tunisia partì la ribellione accompagnata da quel sentimento di consapevolezza di voler essere trattati come cittadini, e non più da sudditi di regimi tirannici in piedi da decenni. Un sentimento contagioso, che si espanse a macchia d’olio dal Nord Africa al Medio Oriente, divorando despoti divenuti quasi immortali nell’immaginario, oltre che nella loro gestione del potere.

Ieri, quel sentimento che si presentò nelle piazze in carne e ossa fu battezzato “primavera araba”. Oggi è considerato già “inverno arabo”, per chi dimentica che le rivoluzioni hanno bisogno non solo dei loro uomini e donne, ma anche del loro tempo e delle loro idee per svilupparne i frutti. E soprattutto del gioco della democrazia, che non è una scienza esatta. La Tunisia è, in questo senso, il miglior laboratorio di studio di questo processo storico, che ha bisogno di essere seguito, studiato, analizzato con la dovuta precisione proprio per la sua complessità, che non permette semplificazioni e analisi a caldo. Perciò, quello che dobbiamo tenere a mente quando parliamo della Tunisia è che si tratta di un Paese in continuo movimento e trasformazione, e dai processi sorprendenti per la loro velocità anche nel cambiamento. Un cantiere aperto, insomma.

I cinque anni passati da quando i tunisini hanno chiesto a Ben Ali di andarsene, con la conseguente promulgazione della nuova Costituzione nel 2014, sono il perfetto termometro di analisi del Paese che ha dimostrato di avere una tenacia senza eguali, in quell’area geografica, nel perseguire la propria strada costruendosi un impianto giuridico moderno, tanto da diventare un fiore all’occhiello per l’intero mondo arabo, in barba alle minacce del terrorismo islamico e a una economia che fatica a rialzarsi.

Sorprenderà molto, infatti, rileggere la nuova Costituzione tunisina come una delle più avanzate del mondo arabo. Moderna e progressista, è nata sotto un governo islamista come Ennahda grazie al ruolo della democrazia, all’attivismo della società civile e alla politica tunisina. Insieme sono riusciti a trovare il giusto compromesso per offrire ai cittadini una carta costituzionale votata da ben 200 sì, dove i loro diritti e doveri possano farli sentire tutelati e non sottomessi.

Nero su bianco, il patto con i tunisini è stato siglato nel momento in cui è stato dichiarato nella Carta – dove finalmente un Paese arabo e musulmano toglie ogni ambiguità – la libertà di credo e di coscienza, il divieto di accusa di apostasia, la libertà d’espressione, di stampa e di edizione, d’associazionismo e di sciopero, l’uguaglianza di diritti e doveri tra uomo e donna e le pari opportunità all’interno degli organi elettivi. La sintesi di una vera rivoluzione che questo Paese ha portato avanti con grande forza, ribadendo: “La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo stato di diritto”.

Queste parole, se per noi sono già assodate, in tale contesto sono invece rivoluzionarie. Si pensi che, ad esempio, per la prima volta in un Paese musulmano si è approvata la libertà di coscienza; in altri termini, significa che è consentito rinnegare la propria religione. Un atto assolutamente proibito dal diritto islamico tradizionale. Ma non solo. La nuova Costituzione mette a fuoco anche il ruolo della donna nella società, riposizionandola con l’articolo 46 alla pari con l’uomo, e anche qui, senza cascare in ipocriti giochi di parole come invece alcuni Stati islamici tendono a fare. Di fatto, questi ultimi limitano la parità tra uomo e donna attraverso interpretazioni religiose misogine ormai superate dal buon senso e dalla contemporaneità del ruolo della donna nella società (basti pensare al suo ruolo da protagonista nello sviluppo economico del proprio Paese).

Un tassello di rottura certamente rivoluzionario, in questo senso, è la regolamentazione dell’eredità. Tema intoccabile per i maschi musulmani. Ma con la nuova Costituzione tunisina non è più un tabù inviolabile. Con la parità, se prima l’eredità regolata dalla sharia assegnava una quota dimezzata, la musica adesso cambia, e non ci sono più ragioni valide per giustificare il dimezzamento quando la donna moderna musulmana è a tutti gli effetti anche un motore nell’economia e non un soggetto passivo in attesa di essere mantenuta dall’uomo. Un’iniziativa che ha dato l’input anche al Marocco, che inizia a discuterne per mettere mano a una legge ormai superata.

Per questo, ciò che sta avvenendo a poche miglia dalle nostre coste è qualcosa di eccezionale e storico, perché, con fatica e infiniti ostacoli, dei cittadini liberati stanno cercando, con grande volontà e tenacia, di costruire di nuovo la loro storia nel mondo. Una storia, come dimostra il testo costituzionale tunisino, che potrà essere di ispirazione anche per altri Paesi nell’area, semplicemente perché è autentica, coraggiosa, e dotata di una visione politica. E noi dobbiamo seguirla, sostenerla e provare a raccontare la sua complessità senza avere fretta di darle subito un titolo. La primavera araba non può essere già liquidata come un inverno. È una stagione lunga, piena di luci e ombre, ma che ha bisogno del suo tempo, e noi abbiamo il dovere di concederglielo.

(Articolo pubblicato sul numero di Formiche di marzo)
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