Spending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa l’opinione pubblica ignorava persino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato, però, che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, e questo nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente.
Lo dimostra ad esempio la scarsa o nulla attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato al Parlamento di Westminster dal Cancelliere dello scacchiere britannico George Osborne (uno dei principali contendenti per un alloggio al No. 10 di Downing Street alle prossime elezioni politiche). Eppure, è stato uno dei temi principali di discussione non solo del Regno Unito, ma anche degli Stati Uniti e della Francia (dove il “rientro” nei parametri europei di rapporto tra indebitamento e Pil sta riportando in auge quel “Programme de rationalisation des choix budgetaires” che negli Anni Ottanta fu uno di principali strumenti che portarono all’accordo del Louvre sul cambio fisso tra franco francese e marco tedesco).
Alla sua base c’è un concetto forte: quello dello Enabling State. Non è concetto nuovo: lo elaborò teoricamente Sir John Elvidge quando nel 2012 era fellow del Carnegie Institute, ma è stato divulgato dal saggio “The Enabling Society” di Peter Hicks del 2015. In buona sostanza afferma il principio che i compiti dello Stato nella sfera economico-sociale sono quelli di permettere a ciascuno di dispiegare a pieno le proprie capacità, anche quelle solo potenziali. È un concetto liberale che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi. Resterebbe confinato in un mero dibattito intellettuale se non venisse espresso in obiettivi precisi. Dalle tabelle e dai grafici nel documento portato da Osborne in Parlamento, si mostra invece che lo si può raggiungere facendo fare una svolta a ‘U’ alle tendenze della spesa pubblica: in percentuale del Pil questa dovrebbe passare dal 45% nel 2010 al 36% nel 2020. I traguardi vengono monitorati ogni anno dall’Office for Budget Responsability.
A titolo di raffronto, in Italia la spesa delle pubbliche amministrazioni è pari al 51% del Pil e i documenti di Governo auspicano di portarla al 47% nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura. In breve, partiamo da una situazione molto più grave delle Gran Bretagna: per oltre sei mesi lavoriamo per fornire risorse alla pubblica amministrazione, che li intermedia in base a vari obiettivi. Soprattutto, i vari tentativi di spending review di questi ultimi anni hanno documentato inefficienze e spese, pagate con un aumenti tributari e para-tributari a carico dei cittadini e delle imprese. Occorre, però, un programma chiaro del Governo con traguardi specifici e monitorabili. Non tutti i traguardi saranno condivisibili da un elettorato uso a mance elettorali. Non sarebbe realistico l’obiettivo di ridurre di dieci punti percentuali l’incidenza della spesa pubblica sul Pil, nel contesto di un’Italia che non cresce o cresce poco e ha comunque una vasta area (il Mezzogiorno) in condizioni arretrate. Per i primi anni, si deve porre un obiettivo più contenuto – da modificare, però, quando, anche grazie ad un Enabling State più efficace, più efficiente e più snello, la crescita riparte e si mantiene a livelli (attorno al 2,5%) compatibili con la struttura demografica e produttiva del Paese.
Il concetto di base della spending review annunciata dal Cancelliere dello scacchiere resta però valido. Non è neanche necessario creare un Office for Budget Responsability come in Gran Bretagna poiché è missione specifica della Ragioneria generale dello stato (Rgs), specialmente se all’ufficio studi vengono affidati i compiti per cui è stato concepito. Inoltre, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), di recente istituzione, può aiutare il Parlamento a stimolare e vigilare Rgs e Governo tutto (specialmente i Ministeri di spesa). L’Italia è stata per decenni plasmata dal pensiero della scuola liberale di scienza delle finanze (si pensi a Benvenuto Griziotti) che – con quella svedese – ha preceduto americani, britannici e francesi nell’elaborazione di teorie, metodi e procedure di valutazione. Dispone inoltre di un migliaio di dirigenti e funzionari pubblici formati presso la Scuola nazionale di amministrazione (Sna) tra il 1995 ed il 2007, quando la direzione della Sna decise di chiudere questa linea di attività. Metodi e tecniche vengono applicati principalmente agli investimenti in opere pubbliche, i quali hanno un effetto di breve periodo (attivare capacità produttiva non utilizzata) e uno di medio e lungo periodo (migliorare il capitale sociale e quindi la produttività).
Recenti studi della Banca d’Italia e della Banca europea per gli investimenti documentano come nel nostro Paese imprese, lavoratori e cittadini siano penalizzati dal pessimo stato delle infrastrutture e della mancanza di finanziamenti per realizzarli, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale. Inoltre la spesa pubblica per infrastrutture è scesa a poco meno dell’1,5% del Pil, rispetto al 3,5% del Pil negli anni Ottanta (in linea con la media Ocse di allora, leggermente caduta oggi in buona misura a ragione della riduzione nell’Eurozona e più particolarmente in Italia) e del 2,5% alla fine degli anni Novanta (in gran parte a ragione della contrazione della spesa pubblica per poter essere ammessi nell’Eurozona). Dall’inizio della crisi finanziaria ad oggi, la spesa pubblica in conto capitale ha subìto una riduzione del 40% circa. Ridotta a livelli così bassi la spesa, ci si concentra necessariamente su piccoli interventi di completamento e manutenzione straordinaria. Utili e spesso urgenti (si pensi alle strade di Roma Capitale), ma ben lontane dall’afflato che si aveva quando, ad esempio, negli anni Sessanta il traforo del Monte Bianco venne costruito in appena tre anni e l’autostrada del Sole ci veniva invidiata in tutto il mondo.
Consapevole della rilevanza assoluta di questo tema, il Centro studi ImpresaLavoro ha deciso così di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.
Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Incorpora regole e direttive nazionali ed europee attualmente in vigore e si propone come uno strumento essenziale per la migliore utilizzazione dei fondi comunitari. Mette l’accento sulla spesa in conto capitale perché è il comparto con maggiori esempi e casi di studio, ma indica come – seguendo ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti – metodi e procedure possono essere applicati anche alle spese di parte corrente.
Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta, insomma, di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte, infatti, dalla premessa implicita che gli italiani in generale, e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pubblica amministrazione che prendono le decisioni di spesa, quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.