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Perché le banche europee soffrono

Anche la Banking Union si sta dimostrando un progetto fallimentare, come il Fiscal Compact: alle promesse mirabolanti di arrivare a tappe forzate ad una progressiva convergenza nella stabilità, corrisponde un processo inverso: se la fiducia nelle banche europee è sempre più scarsa, la colpa è degli errori non corretti subito dopo la crisi del 2007, vieppiù aggravati da mistificazioni, omissioni e forzature.

In Italia, considerando le quotazioni bancarie da inizio anno (con una media dei nove istituti pari al -48,6%), il crollo sembrerebbe giustificato della mole consistente dei crediti in sofferenza, dai complessi processi di ricapitalizzazione e di fusione in corso, e dal coinvolgimento di istituti capofila nei consorzi di garanzia. Se una situazione assai drammatica si rileva in Grecia (con una media dei primi quattro istituti pari al -94,6%), anche le banche di Spagna (con una media dei sei istituti del -44,15%) e Portogallo (un unico istituto con il -64,7%) sono in difficoltà: nel caso di Atene ci sono problematiche irrisolte per il debito pubblico; i dati di Madrid dimostrano l’esistenza di difficoltà ulteriori rispetto a quelle affrontate con il Frob; a Lisbona, le incertezze derivano dalla marcia indietro del nuovo governo rispetto le riforme già adottate.

Anche le istituzioni bancarie di Paesi teoricamente più solidi hanno registrato andamenti di Borsa penalizzanti: in Germania, Deutsche Bank ha riportato un -57% da inizio anno, nonostante l’operazione di massiccio riacquisto di bond subordinati, mentre Commerzbank ha segnato un -43,7%; in Svizzera, Credit Suisse ha registrato -50,4%, Julius Baer -22,45% e UBS -22%; in Francia, Credit Agricole ha subito un -35,6%, Societe Generale -33% e BNP Paribas -25,4%; in UK, la media dei cinque istituti bancari quotati al FTSE 100 è stata del -32,9%. Uno sguardo Oltre Atlantico fornisce dati meno negativi, con Goldman Sachs che ha lasciato sul terreno appena il 13,9% e JP Morgan il 10,9%, mentre sono numerose le società petrolifere che mostrano vistose perdite: sono ben 10, tra le prime 24, a segnare le peggiori performance da inizio anno, con perdite che vanno dal 75,3% al 42,5%.

Il mercato batte dove il dente duole: in Europa sulle banche, per via di una economia stagnate e la deflazione; negli Usa sullo shale gas, per via della caduta dei prezzi.

Se è vero, come ha affermato il Governatore della Bce Mario Draghi nella Prefazione alla recentissima Relazione annuale, che “si pongono interrogativi riguardo alla direzione in cui andrà l’Europa e alla sua capacità di tenuta a fronte di nuovi shock”, è ancor più vero che la debolezza del sistema bancario deriva dagli errori compiuti nei primi anni Novanta ed a cui si aggiungono quelli della Vigilanza unificata. In queste condizioni, a nulla varrebbe il completamento dell’Unione monetaria, seguendo i suggerimenti contenuti nel Rapporto dei “Cinque Presidenti”.

Il sistema bancario europeo sconta in primo luogo gli effetti dell’abbattimento della distinzione tra Banche commerciali ed Istituto di investimento finanziario che risaliva alla metà degli anni Trenta, quando fu introdotta per evitare che il sistema bancario finanziasse le bolle borsistiche anziché l’economia reale. Si adotto il modello della Banca mista, alla tedesca: fu una pia illusione quella coltivata dalla Legge Draghi del 1993, pensare che bastasse eliminare un vincolo istituzionale per rimediare alla cronica sottocapitalizzazione delle imprese italiane ed alla mancanza di prestiti a medio e lungo termine che ne limitava la crescita dimensionale. Il venir meno dei vincoli alla operatività funzionale e territoriale delle aziende di credito ha avuto come unico risultato l’enorme aumento degli sportelli per farsi competizione sulla raccolta e l’intervento in aree e settori produttivi di cui nulla si sapeva. La politica delle aggregazioni ha posto rimedio a questa crescita disordinata, ma non ha mutato né la mentalità, nè le capacità operative del nostro sistema bancario: poca finanza, per fortuna.

Dopo la crisi del 2007, le banche italiane non furono travolte dalle perdite sui titoli illiquidi americani come quelle del nord Europa, ma sono state poi colpite duramente dalle decisioni dei regolatori, dall’Eba alla stessa Bce: prima per la elevata detenzione di titoli di Stato, poi per la forte caratterizzazione creditizia dell’attivo. Per un verso dovevano aumentare il capitale a fini precauzionali, e per l’altro hanno avuto difficoltà ad accedere alla liquidità della Bce non avendo attività cartolarizzate o facilmente cartolarizzabili, fin quando non quando sono state effettuate le operazioni straordinarie di LTRO: come collaterali emisero obbligazioni, garantite dallo Stato. Anche gli esercizi di supervisione straordinaria, in vista dell’avvio della Banking Union, hanno adottato un criterio a noi sfavorevole per la valutazione del rischio in funzione delle tipologie di impieghi (RWA): gli istituti del nord Europa hanno beneficiato di una enorme area di esenzione per via dei sistemi interni di valutazione del rischio per gli impieghi senza rating indipendente (livello 3). Ciò ha ridotto di molto la incisività delle verifiche da parte della Bce, anche se è questa opacità che oggi li penalizza sui mercati. Gli stress test, con previsioni catastrofiche, hanno completato l’opera.

I successivi acquisti di titoli di Stato con il Qe hanno ridotto gli impieghi bancari che non consumano capitale di rischio, ma che fornivano rendimenti elevati e sicuri, in cambio di una liquidità che per essere impiegata necessità di nuovo capitale. Un paradosso, nel momento in cui l’incremento delle sofferenze ne assorbe quote crescenti.

A questo si aggiunga l’orrida configurazione della direttiva BRRD che ha introdotto il bail-in e la Comunicazione della Commissione sugli aiuti di Stato al settore bancario che è intervenuta senza che le nostre Autorità avessero tempestivamente predisposto una Bad Bank di sistema.

Su tutto campeggia la carenza ancor oggi di un sistema unico europeo di assicurazione dei depositi che rende temibile una illiquidità generale nel caso in cui qualche banca di dimensioni non lillipuziane dovesse essere dichiarata insolvente.

Gli effetti sistemici sono già destabilizzanti: con il varo del bail in, la raccolta bancaria con obbligazioni a medio termine si è contratta, perché ritenuta più a rischio di altri impieghi, riducendo le risorse da destinare al credito ed aumentando la raccolta dei Fondi di investimento che enfatizzano la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia e gli impieghi all’estero.

Il sistema bancario si è trasformato in una sorta di Banco dei pegni: concede liquidità a chi ne ha disperato bisogno, a fronte di garanzie che vengono valutate con enorme severità. Il credito come motore dello sviluppo capitalistico, come sostituto della accumulazione primitiva, si è dissolto: di Schumpeter consideriamo paradossalmente solo la distruzione creativa. A costruire non ci pensa più nessuno.

L’acqua della piena è arrivata anche ai piani alti, banche e finanza: la deflazione salariale e dei prezzi, di cui la Germania è stata fautrice al fine di ridare competitività internazionale ai Paesi in disavanzo strutturale, rende eccessiva la moneta già in circolazione. E più la Banca centrale ne immette per ravvivare il credito e la ripresa, più i tassi di remunerazione del risparmio si riducono. Dal lato della domanda, la severità fiscale e le politiche sociali volte alla precarizzazione del lavoro ed alla compressione dei salari aggravano la situazione.

Se le banche dei Paesi Piigs sono penalizzate dalla evidente difficoltà in cui si trovano le rispettive economie reali, quelle dei Paesi della Europa core sono considerate altrettanto a rischio, per la volatilità degli impieghi in titoli e l’opacità dei derivati.

Tutto si tiene: se le banche operano come un qualsiasi gestore di Fondi, assumendosi la medesima tipologia di rischi speculativi con l’internal dealing, non ha più senso mantenere in loro favore la tutela dal default che si deve a chi raccoglie il risparmio e si limita ad erogare il credito. Ma, di converso, non ha alcun senso erogare loro liquidità, pur a fronte di collaterali adeguati, se questa viene impiegata per acquisti sui mercati anziché per corrispondere alle richieste di liquidità dei depositanti. Questa, con le norme sul divieto dell’utilizzo dei contanti, sciacqua da un conto all’altro, da una banca all’altra, da un Paese all’altro, inseguendo i timori.

Se non si tornare al credito e all’investimento produttivo, non avremo né sviluppo economico né stabilità bancaria: per andare avanti, bisogna tornare indietro.

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