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Come procedono i lavori alla diga di Mosul

Associated Press scrive che il primo team di tecnici italiani della ditta Trevi è arrivato giovedì a Mosul per iniziare la preparazione del campo in cui sarà posizionato il resto della squadra che si occuperà dei lavori di sistemazione della grande diga. Fonti italiane ben informate sul dossier, che preferiscono restare anonime, dicono a Formiche.net che “in realtà si tratta di un solo responsabile, inviato momentaneamente per seguire l’avvio dei lavori per la realizzazione del compound che ospiterà i lavoratori” (dunque se ne occuperanno gli iracheni della realizzazione), e non commentano su altri dettagli in merito agli step operativi e alle misure di sicurezza che accompagneranno i lavoratori italiani durante le attività di manutenzione straordinaria, che, come spiegano, interesseranno una paratoia della diga (ossia uno dei sistemi che blocca l’acqua e crea l’enorme invaso sul Tigri).

IL CONTESTO

La situazione è sensibile sia dal punto di vista tecnico che da quello della sicurezza. Gli Stati Uniti hanno già definito lo sbarramento a rischio crollo imminente, valutandolo come un disastro senza precedenti che finirebbe per portare danni più o meno diretti a qualcosa come due milioni di persone; il premier iracheno Haderi al Abadi ha chiesto che gli abitanti dei villaggi più prossimi fossero spostati ad almeno sei chilometri dai bordi dell’invaso. Allo stesso tempo, basta seguire i reportage settimanali di CentCom, il Comando Centrale americano che per competenza territoriale gestisce le operazioni contro lo Stato islamico in Iraq e Siria, per notare come quella di Mosul sia ripetutamente l’area più colpita dalle bombe dei jet della Coalizione internazionale che combatte il Califfato. Questo perché la città è la roccaforte dell’IS in Iraq, ed è stata dichiarata da Washington il prossimo obiettivo da liberare (movimenti in questo senso sono già in atto, anche attraverso l’uso innovativo della Cyber War).

DAL POSTO

Eleonora Giuliani e Justin Ames sono una fotografa e un giornalista freelance (curano insieme il blog “The velvet rocket“) che si muovono nelle zone intorno a Mosul controllate dai curdi. Contattati da Formiche.net raccontano che per il momento intorno alla diga la situazione è tranquilla: “La Trevi non è ancora qua, si dice da un po’ che sarebbe arrivata il 15 aprile, ma ancora non ci sono” (o forse, essendo soltanto un tecnico, non si vede). “Abbiamo parlato sia con l’ingegnere iracheno responsabile della diga, che con il comandante dei Peshmerga di base alla diga di Mosul, e ci hanno comunicato che verso metà marzo la ditta Trevi è venuta per un sopralluogo con circa 5-6 persone, ma i lavori in realtà non partiranno per i prossimi 6 mesi, poiché sarà necessario prima creare un campo di alloggio e trasferire tutti le attrezzature necessarie per iniziare”.

LE TRUPPE ITALIANE

Giuliani e Ames raccontano che durante quel sopralluogo di metà marzo i Peshmerga hanno rassicurato i tecnici italiani sulle condizioni di sicurezza nell’area e il comandante ha detto loro che “è stato deciso di non inviare truppe italiane alla diga”. La questione è interessante perché l’invio di un contingente di circa 450/500 uomini annunciato dal premier Matteo Renzi e confermato successivamente dal ministro della Difesa Robarta Pinotti, è transitato al centro del dibattito politico italiano: i critici sostengono che per certe operazioni serve che le ditte ingaggino dei contractor (società di sicurezza private), perché non si può mandare un battaglione di fanteria dell’esercito (si era parlato di Bersaglieri e mezzi associati) a tutela di interessi di una società privata.

GLI ANNUNCI DEL GOVERNO

A inizio marzo l’Italia ha annunciato l’intenzione di inviare nel Kurdistan iracheno, a qualche decina di chilometri in linea d’aria da Mosul, 130 militari italiani appartenenti al 5° Reggimento Aviazione “Rigel” e al 7° “Vega” della Brigata aeromobile “Friuli” dell’Esercito italiano, appoggiati dal reggimento di fanteria aviotrasportata del 66° “Trieste“, e soprattutto affiancati dall’alto da quattro elicotteri da combattimento Augusta Mangusta e altri quattro da trasporto NH-90. Il compito di questo contingente sarà quello che in gergo tecnico viene definito CSAR, Combat search and rescue, ossia operazioni di recupero, ricerca e salvataggio in ambienti ostili. Sommando questa decisione alle dichiarazioni del comandante curdo, si potrebbe pensare che il governo abbia cambiato idea sullo schieramento del contingente nella diga (anche sotto le pressioni dei critici?), e pensi piuttosto ad affidare il compito sul posto ai Peshmerga, creando un dispositivo di pronto intervento a poca distanza.

LA DIGA È STABILE, DICONO GLI IRACHENI

L’ingegnere responsabile della diga ha spiegato inoltre che la situazione tutto sommato è molto meno critica di quanto raccontato: “Il clamore serve per generare contratti lavorativi stranieri e spaventare l’IS”. Certe dichiarazioni vanno prese con attenzione: non sarebbe la prima volta che gli iracheni sottovalutano e minimizzano, e non è la prima volta che da Baghdad cercano di vendersi migliori di quel che sono (pensare per esempio alle continue dichiarazioni sull’uccisione di leader baghdadisti, sempre smentite dalla realtà). Allo stesso tempo, queste dichiarazioni vanno anche inserite nel contesto politico iracheno: inizialmente Baghdad ha mostrato ostilità nei confronti dell’affidamento dei lavori ad una ditta straniera, occidentale per giunta. Le posizioni più oltranziste tra i partiti e le milizie sciite, già qualche mese fa, avevano dichiarato che avrebbero considerato gli italiani come “forze di occupazione” (dichiarazione della Katiba Hezbollah, partito/milizia mosso dall’Iran).

GLI ASPETTI TECNICI

Anche l’ingegnere iracheno conferma che la ditta italiana avrà il compito di riparare una delle due paratoie, ossia mettere le mani in una delle parti più delicate di una diga, quella che blocca l’acqua oltre l’invaso e che ne regola le operazioni di deflusso per scolmo. Inoltre, pare che la Trevi continuerà nel jet grounting, le iniezioni di cemento in uno stato più liquido in profondità: un’operazione già in atto da tempo e operata da ditte irachene, che serve a consolidare gli strati sedimentari gessosi (facilmente erodibili dall’acqua, come dimostrato da vecchi studi) su cui poggiano le fondazioni.

(Foto: Eleonora Giuliani Ames, Mosul Dam: le paratoie sono le aperture da cui fuoriesce l’acqua)

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