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Perché il frenetico attivismo dei pro Sì al referendum può nuocere alla nuova Costituzione

Renzi

Visti i tempi lunghissimi della campagna referendaria sulla riforma costituzionale, destinata ad attraversare tre stagioni, dalla primavera all’estate e all’autunno, comincio a chiedermi come faranno i condottieri del sì e del no a tenere desta l’attenzione degli elettori, senza sfinirli e regalarli per reazione all’astensionismo, anziché invogliarli alle urne. E dall’astensionismo chi rischia di essere danneggiato di più, per unanime convinzione degli specialisti, è il fronte del sì: proprio quello che si agita maggiormente, annunciando addirittura banchetti di propaganda sulle spiagge, dove i bagnanti dovranno dividersi fra venditori ambulanti di costumi e distributori di volantini.

Già si contano comunque le prime “vittime” della troppo lunga campagna referendaria. Sono i giuristi, professori ed esperti: sia quelli schieratisi per il no, a cominciare dal nucleo originario di 56 titolatissimi signori, dei quali una ventina fra presidenti e giudici emeriti della Corte Costituzionale, sia quelli, sinora più numerosi, accorsi sul fronte del sì.

Una coppia di costituzionalisti del sì ospite abituale dell’Unità, duramente sbertucciata sul Fatto Quotidiano da un Marco Travaglio più caustico del solito, ha voluto anche calcolare l’età media dei 56 giuristi del no. E, avendola trovata attorno agli 80 anni, con punte anche vicine ai 90, ne ha sornionamente apprezzato la eccezionale “lucidità”.

Per ritorsione, ospite del salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, con la componente femminile, diciamo così, della coppia dell’Unità, Travaglio ha lamentato la presenza, fra le centinaia di giuristi del sì, troppi professori ancora in carriera, sospettati perciò di volerla migliorare schierandosi col governo, cioè col potere.

Chi firma insomma, contro o per la riforma targata Renzi, rischia grosso. O di finire d’ufficio in un gerontocomio, strappato ai familiari superstiti, o addirittura in qualche registro giudiziario per il reato, ancora fresco d’esordio, di traffico illecito d’influenze.

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Il più severo e autorevole critico della riforma Renzi può ben essere considerato l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Di cui pertanto ho letto con doverosa attenzione la lunga intervista appena fattagli dall’ex direttore della Repubblica Ezio Mauro. Che ha cercato di mettere il luminare a suo agio anche per allontanare forse il sospetto coltivato dalla minoranza del Pd che il giornale ora diretto da Mario Calabresi, affrettatosi d’altronde a intervistare poi per il sì Massimo Cacciari, strizzi troppo l’occhio al governo, per quanto il fondatore Eugenio Scalfari, in verità, abbia più volte scritto di voler votare no in occasione del referendum. A meno che Renzi non si converta all’idea, sinora rifiutata, di modificare la nuova legge elettorale della Camera, chiamata Italicum.

Anche Zagrebelsky se l’è presa con l’Italicum per gli effetti aggravanti che produrrebbe sulla riforma costituzionale con un premio di maggioranza alla lista più votata, pur di consentire la sera stessa del giorno delle elezioni di sapere “chi ha vinto” e chi ha conseguentemente perduto. Cosa, questa, che a Zagrebelsky non piace perché introdurrebbe nel sistema un elemento, praticamente, più di forza, o prepotenza, che di chiarezza e di equilibrio. Una forza, o prepotenza, che neutralizzando l’opposizione indurrebbe la gente a saltare preventivamente sul “carro del vincitore”.

Beh, più che ragionare, qui mi pare che si filosofeggi sulla legge elettorale, sul premio di maggioranza e sulla riforma costituzionale, con un curioso rimpianto dei tempi in cui il giorno dopo le elezioni tutti i partiti potevano cantare vittoria, anche i più piccoli e ammaccati. Che si rifacevano delle loro delusioni, o di quello che Giuseppe Saragat definì una volta “il destino cinico e baro” appena subìto dal suo Psdi, alzando il prezzo nelle trattative con la Dc per i governi di coalizione che nascevano ad urne svuotate. Tempi oggi francamente inattuali, per quanta filosofia si voglia fare sul potere e sul suo esercizio.

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A livello filosofico rischia di finire anche la distinzione reclamata da Chiara Geloni fra l’approvazione della legge ordinaria sul metodo di elezione dei consiglieri regionali e dei sindaci destinati a comporre il nuovo Senato, già prima del referendum confermativo della riforma costituzionale, e la semplice “scrittura” di questa legge, di cui Pier Luigi Bersani ha parlato con lei.

Il problema della “scrittura”, o impostazione, di quella legge la minoranza del Pd doveva porselo e porre quando concordò con Renzi al Senato il testo, a dir poco nebuloso, su questo punto della riforma costituzionale. Quando cioè si accontentò di un compromesso pasticciato, sapendo bene che la legge ordinaria di attuazione non avrebbe potuto che seguire e non precedere il referendum, né a livello di approvazione né a livello di scrittura.

 

“Scrivere” una legge che non si può neppure presentare per ragioni logiche e regolamentari sarebbe solo accademia, parlamentarmente inutile. Non si possono aggirare le scadenze con espedienti dialettici, pur con tutto il rispetto e la simpatia che meritano naturalmente l’ex segretario del Pd e la sua diligente interlocutrice. Nessun giornale, d’altronde, ha colto nelle cronache politiche alcuna distinzione, parlando della legge reclamata – e basta – da Bersani per confermare o no il suo orientamento a votare sì al referendum. Un sì comunque “non cosmico”, secondo la definizione ironica dello stesso Bersani, diffidente verso la portata attribuita da Renzi alla partita referendaria.

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