E’ doveroso chiedersi quale società e quale Stato stiamo costruendo se obblighiamo i Sindaci a compiere un atto vietato dalla loro coscienza?
a) La pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo prima citata contiene un’indicazione significativa:
Corte Europea dei diritti dell’Uomo, Caso Ercep contro Turchia, decisione del 22/11/2011: “ciò che è protetto dall’Articolo 9 della Convenzione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, è uno dei fondamenti di una “società democratica” ai sensi della Convenzione. Si tratta, nella sua dimensione religiosa, di uno degli elementi più essenziali per l’identità dei credenti e per la loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti. Si tratta del pluralismo, conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli e da cui dipende il tipo di società. (…) il giudice deve tener conto della necessità di garantire un vero pluralismo religioso, di vitale importanza per la sopravvivenza di una società democratica (…) il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura sono le caratteristiche di una “società democratica”.
Benché sia necessario talvolta subordinare gli interessi individuali a quelli di un gruppo, la democrazia non significa semplicemente la supremazia costante dell’opinione di una maggioranza: deve essere raggiunto un equilibrio che garantisca l’uguaglianza di trattamento delle persone appartenenti alle minoranze e eviti qualsiasi abuso della posizione dominante”.
b) Uno Stato che nega l’obiezione di coscienza nei casi in cui essa viene invocata da una pluralità significativa di persone è sulla via di diventare uno Stato totalitario: questo avevano ben presente gli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), scritta dopo la tragica esperienza di una guerra mondiale originata da uno Stato totalitario e in presenza di quella sovietica, ugualmente totalitaria. I fautori del positivismo giuridico – a volte senza rendersene conto – trasformano il principio di legalità nell’oppressione delle minoranze o dei dissidenti.
E’ significativo il brano di Maurizio Mori per spiegare questa affermazione: “Il funzionamento di società complesse come la nostra si avvale dei servizi svolti dalle diverse professioni, i cui compiti specifici e il cui coordinamento è affidato al diritto che così facendo garantisce l’efficienza della vita sociale. Le norme giuridiche stabiliscono i doveri dei giudici, degli avvocati, degli ingegneri, dei giornalisti, dei giornalai, dei taxisti, dei militari, dei medici, dei farmacisti, e via dicendo. Un giornalaio, per esempio, ha il dovere di vendere tutti i giornali stampati, e non può fare obiezione di coscienza alla diffusione di testate ritenute immorali o scorrette, perché il mancato servizio danneggerebbe il diritto di informazione del cittadino. Un giudice ha il dovere di applicare la legge, qualunque essa sia, e non può fare obiezione di coscienza a quelle che da lui non condivise. Non svolgere con puntualità e precisione il compito previsto è omissione di servizio pubblico, una mancanza che non è giustificata e va sanzionata perché reca danno a terzi, i quali hanno diritto alla prestazione.”
L’obiezione di coscienza, in questo quadro, deve semplicemente scomparire: il quadro normativo deve essere applicato da tutti e da ciascuno, senza porsi nessuna domanda, né su come la norma è stata approvata (per esempio, noi sappiamo bene che molte norme vincolanti sono state approvate in epoca fascista o con modalità che oggi non riterremmo “democratiche”: ma nella visione positivista conta soltanto la regolarità formale), né sul fatto che la condotta obbligatoria sia giusta oppure, appunto, contrasti con la coscienza del singolo che deve porla in essere. In questo ragionamento le sanzioni penali seguono immediatamente (“omissione di servizio pubblico”), perché la visione è “matematica”: legge, condotta obbligatoria, omissione di condotta obbligatoria, sanzione. L’individuo è semplicemente l’esecutore “incosciente” dell’ordine della legge.
c) Ebbene, c’è una considerazione di carattere storico che potrebbe essere evidenziata per negare questa evoluzione: l’Italia, fin da quando è emerso il primo caso di obiezione di coscienza (quella al servizio militare), ha sempre fatto la scelta favorevole a questa soluzione.
Si tratta di un orientamento che è durato decenni: 1972 (obiezione al servizio militare), 1978 (legge 194 sull’aborto), 1993 (obiezione di coscienza alla sperimentazione animale), 2004 (legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita); ma, appunto, quando nel 1987 la Corte Costituzionale ha negato l’obiezione di coscienza ai giudici tutelari, ha cercato di “disinnescare” la questione, suggerendo esplicitamente (come abbiamo già visto) soluzioni organizzative che permettessero di tutelare i singoli magistrati.
Probabilmente – su questioni forse meno rilevanti – troveremmo altre scelte normative o regolamentari dirette a tutelare le minoranze religiose: si pensi al riconoscimento del sabato non lavorativo per i lavoratori di fede ebraica o avventista, le previsioni di alcune Intese con altre religioni non cattoliche, i contratti collettivi previsti per i lavoratori musulmani; e poi, più in dettaglio, ad esempio, le scelte fatte da molti Comuni per permettere alle famiglie di scegliere menù compatibili con la religione nelle mense scolastiche o aziendali.
Insomma: la “linea” – esplicitata o meno – è sempre stata quella del rispetto della fede religiosa e del “disinnesco”, con adeguate misure organizzative, magari anche difficoltose, del problema del contrasto tra convinzioni religiose e ordinamento pubblico. Non vi è motivo per discostarsi da questa linea, che è appunto dimostrazione concreta della natura democratica e pluralista dello Stato.
d) Tuttavia, per sostenere questa tesi, occorrono ultime precisazioni, con le quali, in sostanza, si ritorna all’inizio della trattazione.
L’obiezione di coscienza riguarda il tema del rapporto tra lo Stato e il singolo individuo. Solo comprendendo ed esaltando questa caratteristica, la linea dei Sindaci può avere qualche successo. In uno Stato democratico, la questione “politica” si esaurisce con l’approvazione della legge da parte del Parlamento e la firma del Presidente della Repubblica; dopo questi due passaggi, l’azione politica non può che rivolgersi all’abrogazione della legge con un referendum o da parte di una nuova maggioranza parlamentare ovvero – se ve ne sono le possibilità nei termini prima indicati – con questioni di legittimità costituzionale.