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Ecco come e perché la ripresa rachitica ha influenzato il voto alle comunali

Nella lunga notte televisiva di commenti elettorali, prima agli exit polls poi ai dati che venivano piuttosto lentamente dal Viminale, le analisi e le opinioni hanno riguardato essenzialmente i rapporti tra le forze politiche nei mesi che precedono il referendum e nel resto della legislatura. Nelle prime pagine dei giornali questa mattina il consenso sembra da questo turno elettorale sia il Partito Democratico (PD) una delle forze politiche ad uscire perdente. Poco si è riflettuto, invece, sia sulle determinanti della sconfitta sia soprattutto sulle sue implicazioni.

Il PD ha un leader nella doppia carica di segretario del partito e di presidente del Consiglio, giovane (relativa alla tradizione italiana dell’ultimo quarto di secolo), pieno di energia, dotato di indubbie qualità comunicative e mediatiche e intenzionato a riformare il Paese (anche se numerosi riformatori non concordano né sulla agenda né sui contenuti da lui proposti e predisposti). Tutte caratteristiche che dovrebbero assicurare successi elettorali. Sono dunque solo specifiche situazioni locali che hanno fatto voltare le spalle agli elettori?

A mio avviso, la determinante principale è l’andamento dell’economia, in una fase in cui la politica economica è diretta essenzialmente da Palazzo Chigi. Dopo due anni di annunci di “svolte” e di “riprese” dietro l’angolo o “a portata di mano”, i dati asettici somministrati periodicamente da Eurostat, Istat, Ocse, Fondo monetario ci dicono che in termini di crescita siamo i penultimi in Europa (peggio di noi c’è solo la Grecia), che negli ultimi dieci anni abbiamo distrutto un quarto della nostra capacità manifatturiera, che la disoccupazione è scesa debolmente ed unicamente in relazione ad incentivi alle assunzioni disponibili per circa un anno, che l’emigrazione di tecnici e scienziati aumenta mentre si è inondati da immigrazioni su cui non abbiamo un chiaro indirizzo, che il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più altri in Europa, che  le differenze dei redditi e della ricchezza diventano più gravi, che il ceto medio basso scivola verso la povertà, che il debito aumenta,  che il sistema bancario mostra crepe troppo a lungo celate con rapide verniciature. E via discorrendo.

I cittadini percepiscono che il governo, alle prese con alchimie costituzionali ed elettorali di cui si comprende unicamente l’intenzione di avere un esecutivo forte e stabile, che Palazzo Chigi quasi tratti con insofferenza e sufficienza i dati sciorinati da fonti statistiche asettiche, molte delle quali distinte e distanti dai problemi della vita quotidiana degli italiani. Su tutte incombe la previsione del Fondo Monetario secondo cui se il contesto internazionale torna ad essere favorevole e se le politiche del governo verranno attuate come annunciate, solo nel 2027 il reddito nazionale tornerà ai livelli del 2007.  Nei libri di storia, Renzi rischia di essere ricordato come il “Presidente del Consiglio del ventennio perduto”. Il risultato della tornata elettorale di 5 giugno è un avvertimento. Forse può ancora effettuare la vera svolta: dare più attenzione (invece di un benign neglect) all’economia e meno alle alleanze politiche e ai ritocchi istituzionali.

Ciò vuol dire non ulteriori richieste di flessibilità alle autorità europee, ma, all’interno, una forte politica di liberalizzazioni e privatizzazioni, una vera revisione della spesa pubblica, una ristrutturazione del debito pubblico, ed un rilancio delle infrastrutture con rendimenti certi e documentati. Il compito più difficile è sul fronte dell’eurozona. Nel novembre 1989, abbiamo commesso un grave errore entrando nella “fascia stretta” degli accordi europei sui cambi con una parità sopravvalutata. Da allora (circa trent’anni) un Dutch disease all’italiana spolpa il nostro sistema produttivo, in particolare l’industria manifatturiera ed ha effetti perversi sul nostro debito. E’ giunto il momento di porre francamente il problema in seno all’UE e di esaminare possibili soluzioni.

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