La recente storia dei principali partiti politici del Regno Unito al cospetto delle istituzioni comunitarie è marcata da due costanti: la tendenza del partito laburista a essere favorevole all’integrazione europea e quella contraria del Conservatori che li espone a divisioni al loro interno sulle modalità di presenza – e permanenza – del Regno Unito nell’Unione. Ma non è sempre stato così.
Dopo che MacMillan era stato umiliato dal “non” di De Gaulle nel 1962, il leader del partito Laburista, Harold Wilson aveva definito i Tories come “dei labrador pronti a scodinzolare in attesa di un cenno dal Generale”. Wilson aggiunse anche con sarcasmo: “A me piacciono i labrador, ma non li manderei mai a Parigi a trattare con i francesi”. Difatti, l’elettorato britannico, seppur per una manciata di voti, affidò a lui l’incarico di formare un nuovo Governo. Nella campagna elettorale del 1964 l’argomento Europa non venne praticamente mai toccato.
Wilson era definito “a master of ambiguity”, il Signore dell’Ambiguità. E sull’Europa dimostrò di valere questo appellativo come pochi altri. Il suo predecessore alla guida del Labour, Hugh Gaitskell, aveva posizionato il partito su posizioni anti-comunitarie. Il Mercato Comune mal si conciliava con la pianificazione socialista, allora faro delle politiche laburiste, e l’idea di un Commonwealth multiculturale, multirazziale e sovranazionale aveva ancora un richiamo maggiormente internazionalista nella sinistra britannica che non le istituzioni uscite dal Trattato di Roma.
La crisi della sterlina, le conseguenti politiche deflazionarie, la proclamazione unilaterale dell’indipendenza da parte della Rhodesia e il crescente successo economico della Cee, stavano mutando l’atteggiamento consolidato delle classi dirigenti britanniche sull’adesione del Regno Unito alla Comunità. Certo, i partner europei mal tolleravano i tentativi di richiesta di “associazione esterna” e non “full membership” da parte dei negoziatori UK in sede di trattativa, ma sullo sfondo del Foreign Office cominciavano a farsi strada una serie di diplomatici e civil servant, destinati a ribaltare le idées reçues di ministri e uffici centrali dei partiti. Nel 1963, Sir Con O’Neill fu nominato capo della delegazione britannica a Bruxelles, e con il suo vice, John Robinson, produsse The Next Steps, “I passi successivi”, testo base per un reappraisal della posizione del Paese nei confronti del processo di integrazione europeo. Una, in particolare, l’idea di fondo: la necessità di entrare nella Comunità perché non c’erano alternative credibili a essa.
Un’idea che faticava a farsi strada anche nel nuovo governo laburista. L’ideologo di The Future of Socialism, Anthony Crosland, non aveva mai menzionato la parola Europa nel suo libro. Wilson, allora leader della sinistra del partito, era contro l’adesione, così come il suo potentissimo portavoce e spin doctor, Richard Crossman. Favorevoli all’adesione erano invece il nuovo ministro degli Esteri, l’eccentrico George Brown, e Roy Jenkins, destinato a diventare uno dei volti più riconosciuti e apprezzati della sinistra liberal britannica, in Europa come Presidente della Commissione e in Inghilterra come home secretary. Di fronte alla cruda realtà dei fatti, a Wilson non restava che l’inversione a “u”, e, senza comunicarlo mai ufficialmente, né mai confermandolo, stava non solo cambiando opinione, ma anche lavorando a una nuova richiesta di adesione. Naturalmente, la questione della sovranità era sempre dibattuta a Westminster, ma Sir O’Neill era stato chiaro: “Sebbene non bisogni trattare la questione dell’appartenenza alla Comunità con lo zelo di una conversione religiosa, l’esperienza ci ha insegnato nei campi più svariati ci ha insegnato che tutte le nostre relazioni internazionali incidono sulla nostra sovranità, e che la causa dell’indipendenza nazionale è sopravvalutata. Il problema è più pratico, che di principio”. Inoltre, in uno speech con i suoi amici (e informatori) olandesi nel 1966 O’Neill arrivò perfino a dire che “se noi britannici riusciremo un giorno a entrare nella Comunità potremmo anche essere i campioni del sovranazionalismo e non i suoi oppositori!”.
Nel gennaio del 1967 Wilson e Brown, iniziarono un tour in giro per l’Europa per perorare la causa di un Regno Unito membro della Cee. Partirono dall’Italia, ma in Francia si scontrarono con il Generale De Gaulle, il quale, dopo avere rimarcato come non amasse particolarmente che Brown dopo avere bevuto un po’ troppo lo chiamasse “Charlie”, tenne una conferenza stampa in cui parlò del “pericolo di una distruzione degli equilibri nella Comunità con un eventuale ingresso britannico, anche a causa della debolezza della sterlina”. Le fantasiose minacce di ritorsione di Wilson, diffuse ingenuamente da uno dei suoi junior minister, Lord Chalfort, alla stampa francese, ebbero il solo effetto di irrigidire ulteriormente il Generale che, nel 1965, aveva provocato la famosa “crisi della sedia vuota” all’interno della Comunità per la questione relativa alla Politica Agricola Comune.
Sebbene Wilson utilizzò noti churchilliani a Strasburgo, sottolineando come la Gran Bretagna fosse nata da radici europee, il “non” era di nuovo realtà, ma i britannici lo trattarono come una sfida per il rinnovo di una futura richiesta di adesione. Nel frattempo, al Foreign Office le nuove leve stavano acquisendo sempre più potere: l’uomo che “conosceva tutti, capiva tutto, prevedeva e faceva tutto”, John Robinson, fu nominato a capo del Dipartimento dell’Integrazione Europea, dove giocò un ruolo fondamentale anche nella terza – e successful! – richiesta di adesione. “How to get into the Common Market” – Come entrare nel Mercato Comune – , il paper di Sir Con O’Neill che invitava Wilson ad andare avanti, fu il manuale per tutti i politici che dovettero occuparsi di UK ed Europa. O’Neill si dimise dal Foreign Office quando Brown gli impedì di andare a fare l’Ambasciatore nella Germania Ovest, temendo che le sue origini di Old Etonian turbassero il Cancelliere socialdemocratico tedesco Willy Brandt. Prima di essere sostituito come Foreign Secretary da Michael Stewart, Brown nominò Ambasciatore a Parigi un Tory, Christopher Soames, genero di Winston Churchill. Tra i tanti, anche lui determinò la fine della carriera politica del Generale de Gaulle, che morì di lì a pochi mesi. Wilson, però, non riuscì nemmeno a instaurare un rapporto con il suo successore, Georges Pompidou. Alle elezioni del 1970, furono i cittadini britannici a voltargli le spalle votando per Edward Heath e i Conservatori. A lui, già capo politico della delegazione che negoziò il primo tentativo di ingresso nella Comunità, toccava il compito di portare a termine quanto il suo predecessore MacMillan – e il rivale Wilson – avevano intrapreso da ormai 8 anni.
(seconda puntata; la prima si può leggere qui)