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Papa Francesco, Greg Burke e gli americani in Vaticano

GREG BURKE

“Nominando Greg Burke come suo nuovo portavoce, Papa Francesco mette a segno un tiro da tre. Perché ha fatto cadere l’impressione di essere antiamericano, ha mostrato che la competenza è importante e ha mostrato apertura verso i gruppi visti come conservatori. In più ha nominato una donna come vice”. Il giudizio del vaticanista americano John Allen non si può non condividere. Ma la valutazione della “rivoluzione” nella Sala Stampa vaticana va inquadrata in un più generale riassetto degli equilibri vaticani, avvenuto negli ultimi nove mesi. Cade, e forse non casualmente, a pochi giorni dalla conclusione del processo sulla divulgazione di documenti riservati del Vaticano (Vatileaks2), e dopo mesi in cui – in parte come conseguenza di Vatileaks2 –  si è assistito a un significativo riassetto delle posizioni di vertice della Santa Sede, fino al nuovo Motu proprio sui “Beni temporali” che ha drasticamente ridotto i poteri del cardinale George Pell, trasformandolo da zar delle finanze a ministro senza portafoglio.

Sono stati questi i mesi in cui si è registrato un significativo “ritorno degli italiani”, dopo il grande gelo seguito al Vatileaks1, alla rinuncia di Benedetto XVI e alla nomina di Francesco. A partire da marzo scorso, tre su quattro posizioni apicali della Segreteria di Stato sono diventati appannaggio degli italiani: il Segretario di Stato Pietro Parolin, il Sostituto Angelo Becciu, di fresco riconfermato per cinque anni insieme al Comandante della gendarmeria Domenico Giani, e l’Assessore Paolo Borgia. Il quarto è l’inglese Paul Richard Gallagher.

Ciò è avvenuto dopo che gli americani hanno perso il loro guy-to go, l’assessore Peter Brian Wells (nominato nunzio in Sudafrica e in altri paesi dell’Africa australe, posizione non di primissimo piano, visto che le voci di palazzo sostenevano che sarebbe dovuto andare in Messico). Da marzo gli americani non avevano più nessuno al vertice della Chiesa cattolica. Non accadeva dal 2006. Dopo essere stati i grandi elettori di Bergoglio e aver puntato su Pell come ariete di sfondamento contro la vecchia segreteria di Stato bertoniana e la loro gestione finanziaria. Insomma, è sembrato proprio che si sia rotto il feeling tra Bergoglio e gli “americani”. Non il popolo americano, ma gli alti prelati e la stessa conferenza episcopale statunitense, complessivamente attestata su posizioni dottrinali distanti da Papa Francesco.

In questo generale riassetto ha giocato un ruolo importante anche la vicenda di Vatileaks2, con la pubblicazione dei due libri di Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi. ll cardinale Pell, ad agosto del 2015, in occasione del Meeting di Rimini, cioè qualche mese prima dell’uscita dei due libri (5 novembre 2015), aveva annunciato che “i prossimi scandali” sarebbero stati ” finanziari”. L’influenza del cardinale australiano è stata fortemente limitata, inoltre, dopo la battaglia persa per imporre la società americana Price Waterhouse and Coopers come revisore de facto di tutte le finanze del Vaticano (5 dicembre 2015), “scavalcando” le competenze del Revisore generale, Libero Milone (il cui computer è stato hackerato nel settembre 2015 e le indagini su questo fatto hanno dato inizio a quelle su monsignor Vallejo e sulla fuga di notizie).

Questo quadro – che naturalmente si fa più complicato tenendo un occhio sugli sviluppi della prossima campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti – fa valutare appieno il peso della nomina di un americano come Portavoce del Papa, cioè l’uomo che dal 1 agosto sarà nella posizione vaticana più visibile al mondo, dopo quella del Papa stesso.


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