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Che cosa cambierà a Downing Street con Theresa May al posto di David Cameron

brexit

Con due mesi di anticipo rispetto alla tabella di marcia, il leadership contest in casa Tory si è concluso nel modo più scontato, il che non è poco visto quanto sta accadendo nella politica britannica post-Brexit. Mercoledì sera dopo il suo ultimo Question Time alla Camera dei Comuni, David Cameron passerà la mano a Theresa May, la Home Secretary, 59enne remainer riluttante, e seconda donna premier nella storia del Regno Unito dopo Margaret Thatcher.

Sarà un momento epocale. May si troverà a guidare il paese fuori dall’Europa – ha già detto più volte che “la Brexit è la Brexit e non ci sarà alcun secondo referendum” – tenere insieme il regno, e plasmare un nuovo ruolo per la Gran Bretagna, ora come non mai alla ricerca di una propria identità nel mondo.

Come ha sottolineato Laura Kuenssberg, la political editor della Bbc, il cerchio di Notting Hill, i Tory modernizzatori che facevano capo all’ormai ex premier David Cameron e al Cancelliere dello Scacchiere George Osborne, finisce in soffitta e la nuova premier nel suo ultimo discorso da semplice candidata alla guida dei Tories ha fatto riferimento agli illustri predecessori, da Churchill a Disraeli, passando per MacMillan e Thatcher, accreditandosi come One-Nation Tory, per un conservatorismo al servizio di tutti e non dei soliti privilegiati.

Unire il partito, andare oltre le ferite e le pugnalate di un leadership contest senza esclusioni di colpi, sarà un compito difficile tanto quanto quello di ottenere un buon negoziato con Bruxelles. I parlamentari sembrano seguirla, fino a che punto non si sa. Il germe dell’autodistruzione si è insediato da anni all’interno dei Conservatori, facendo a pezzi premier popolari come Margaret Thatcher e John Major, abbattendo segretari di partito come William Hague, Iain Duncan Smith e Michael Howard, ed è tornato a colpire sul nervo da sempre scoperto, l’Europa, frantumando le speranze di David Cameron di concludere il suo secondo mandato a Downing Street.

Nel suo ruolo di ministro dell’Interno, May si è scagliata più volte contro la gestione della questione migranti da parte di Bruxelles, accusando l’UE di mettere le loro vite a rischio e nelle mani dei trafficanti. In una lettera al Times del maggio 2015 aveva definito l’iniziativa del governo Renzi su Mare nostrum un “fallimento”. In passato si era espressa anche a favore dell’abrogazione della legge britannica sui diritti umani (lo Human Rights Act del 1998) derivata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Su questi punti si posiziona a destra nel partito, anche se, da abile tattica, ha attenuato queste posizioni man mano che la Brexit sembrava possibile e il partito era pronto a sostenerla per la premiership.

L’essere stata, tra le altre cose, anche Ministro per le Pari Opportunità le ha dato visibilità anche nel mondo delle associazioni che si occupano di gender equality, diventando una speaker apprezzata della Fawcett Society, la più prestigiosa organizzazione britannica in tema di uguaglianza dei diritti tra uomo e donna.

Ma il suo essere “post-ideologica”, come l’ha definita il Financial Times, l’ha portata spesso anche a cambiare posizione e ripiegare sulle scelte del partito. Nel 2002 aveva preso posizione contro le adozioni per le coppie omosessuali, attirandosi le ire della comunità LGBT. Quando però, nel 2012, Cameron portò avanti con decisione ai Comuni la legge sui same-sex marriage, May fu la prima tra i politici Tories di primo piano ad appoggiarlo, sostenendo che “se due persone, anche dello stesso sesso, si amano, devono avere il diritto di sposarsi”.

La sua premiership sarà valutata in base all’accordo che riuscirà a ottenere con l’Europa, e da come riuscirà a tenere insieme i pezzi di un Regno che, di recente, è attraversato da spinte indipendentiste, recrudescenze razziste e dal grande divario socioeconomico tra la ricca e cosmopolita Londra, e le città e i borghi post-industriali e rurali che hanno voltato le spalle all’UE. Dopo essere stata una remainer riluttante, Theresa May dovrà riuscire ad essere anche una brexiteer convinta, ma capace di non antagonizzare il 48% dei britannici che pensavano che la vita non era poi così male anche nell’Unione.



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