Skip to main content

Perché l’Islam rischia il suicidio per mano dei jihadisti

donne, ministre svedesi, islam, karima, marocco, isis

La mano jihadista ha colpito ancora una volta il cuore dell’Europa e questa volta attraverso un altro simbolo per eccellenza: la chiesa e il cattolicesimo. E lo fa uccidendo selvaggiamente padre Jacques Hermel nella sua parrocchia, al momento della preghiera. Un uomo di 86 anni ammazzato – secondo l’identikit degli attentatori – da un giovane poco più che diciannovenne e un altro ancora minorenne. Uno di loro, Adel Kermiche, aveva 19 anni. Nato in Francia da una famiglia algerina senza problemi economici e un padre professore, era già stato arrestato per aver tentato di andare due volte in Siria. Durante l’attacco indossava un braccialetto elettronico. Si è radicalizzato negli ultimi 18 mesi, affascinato dall’attacco contro Charlie Hebdo.

Il suo nome si inserisce ad altri nella lista dei nuovi jihadisti, figli dell’occidente lontani dall’essere ravvicinati per storia e quotidianità alla causa jihadista, ma che invece in breve tempo vengono divorati dal messaggio in un percorso di radicalizzazione ancora da approfondire.

Adel Kermiche si aggiunge a Mohamed Bouhlel che ha colpito Nizza e che tutti ricordano come tutt’altro che un buon musulmano: beveva alcol, mangiava carne di maiale, consumava droghe, non digiunava nel Ramadan e non frequentava le moschee ma, anzi, preferiva le sale da ballo, soprattutto di salsa. Aveva, poi, una vita sessuale doppia e non intesa come poligama ma bisessuale. Bouhlel in sintesi, viveva nel haram, nell’illecito secondo la tradizione musulmana classica. La sua condotta quotidiana è sufficiente per identificare il jihadista di Nizza come un giovane lontano dal ritratto di un pio musulmano.

Lo era anche Adel dal racconto della madre. Quanto basta perché i musulmani possano tirare un sospiro di sollievo e rinnegarlo: “Lo vedete? Non è un uno di noi. Era solo un depresso ecco perché si è trasformato in terrorista. Basta etichettare l’Islam con il jihadismo quando poi si scopre che gli attentatori non condividono nulla con l’islam plurale e tradizionale”. Come conclusione non fa una piega e farebbe tirare un lungo sospiro di sollievo – non solo ai musulmani – se non fosse che il ritratto di Bouhlel o di Adel si aggiunge ormai alla lista di un vero esercito di perversi in ombra, che si richiamano all’Islam, che nascono e crescono nel grembo anche dell’Occidente.

Noi abbiamo imparato a conoscerlo contando le vittime, spulciando a posteriori la loro vita privata, per scoprire oggi che questo esercito jihadista ha molti tratti comuni, nuovi e inaspettati. Basti pensare, per esempio, a Salah Abdessalam, Abdelhamid Abaaoud, Mohammed Merah e Amedy Coulibaly. Giovani con la fedina penale sporca, ma anche la fede torbida e blasfema. Una fede che, però, a un tratto della loro vita viene ricostruita in breve tempo, trovando la propria culla naturale nell’ideologia jihadista.

Delinquenti ribelli in casa islamica, frustrati che paradossalmente attraverso il haram, (uccidere innocenti) e il loro halal (il martirio) trovano la loro immaginaria purificazione.

È difficile accettare la mostruosità di questi giovani terroristi, ma provare come musulmani a girare le spalle a questo mostro ripetendo come un disco rotto che questi individui non sono musulmani, non aiuta a capire e sconfiggere le cause che hanno portato ragazzi, comunque di cultura musulmana seppur non praticanti, nati e cresciuti in Occidente, a risolvere i propri conflitti abbracciando il messaggio del terrore.

Bisogna pur iniziare a chiedersi il perché la maggioranza dei musulmani oggi viene combattuta da una minoranza violenta, che anch’essa dice di fare riferimento agli stessi testi sacri.

Rinnegare i jihadisti dalla casa dell’islam significa consegnare il proprio futuro a un suicidio lento ma feroce, quanto lo sono le stragi che stiamo vivendo. Iniziano infatti ad emergere nuovi tasselli per ricostruire il successo dell’IS nel reclutare alla causa jihadista nuove leve, insospettabili ai servizi perché lontani dal profilo islamico.

La via anche questa volta sono le fonti classiche e non qualcosa di nuovo. Fonti che raccontano di un Islam di pace e plurale, ma anche il suo contrario. Fonti complesse e difficili da maneggiare, ma oggi nell’epoca di internet, facilmente manipolabili a interpretazioni fuorvianti e alla portata di tutti, non solo dei dotti e sapienti islamici. Fonti diventate armi taglienti nel momento in cui non si ha avuto il coraggio intellettuale di anticipare il tempo e portare avanti un lavoro di “pulizia” prima ancora della “riforma”, eliminando la violenza contenutasi senza contraddizioni e compromessi.

L’ingrediente che accomuna questi giovani jihadisti è una vita segnata dalla sregolatezza e fuori dai dettami classici musulmani, che diventa fonte principale di reclutamento e riscossa, attingendo proprio alle fonti islamiche.

Questa la chiave di lettura ricordata da Mohammed Louizi, franco marocchino, autore dell’ultimo libro “Perché ho lasciato i Fratelli musulmani”.
Louizi mette in guardia chi si affretta ad analizzare il profilo dell’ultimo attentatore come lontano dall’essere reclutato dalla rete jihadista perché conduce una vita fuori dai dettami islamici: “È totalmente falso – precisa – che il profilo del jihadista debba essere per forza quello di una persona pia ed eticamente ineccepibile”.

La letteratura jihadista pullula di racconti quasi mitici, uno dei più accreditati è quello sulla figura di Abu Mihjan al-Thaqafi, vissuto all’epoca del secondo Califfo Omar Ibn Al Khattab. La sua storia circola su siti in lingua araba e inglese, non solo jihadisti, dove si racconta come fosse stato sì un alcolizzato, ma anche impareggiabile nelle guerre di conquista. Una delle più importanti: la battaglia di Al Qadisiyyah contro i persiani. Alternava prigione, flagellazione e jihad. Grazie proprio a lui la battaglia fu vinta e per questo fu graziato dallo stesso Emiro.

Un racconto che trasuda eroismo, facendo emergere come la sregolatezza e la ribellione non possano essere fattori di esclusione, ma quasi un passo avanti verso la purificazione completa attraverso il jihad. Quanto basta nella nostra epoca per mobilitare nuovi giovani candidati, frustrati, egocentrici e in conflitto con le loro identità liquide.

Il terrore diventa un atto finale, la prova più grande per dimostrare al mondo ma soprattutto alla propria comunità – che per prima li rinnega per la loro vita fuori dagli schemi islamici – che invece loro sono ancora più meritevoli, pagando il prezzo del martirio.

Il jihadismo 2.0 conosce molto bene i nervi scoperti di un Islam che non ha saputo con i propri sapienti dotarsi di anticorpi adeguati per far fronte a questa minaccia sanguinaria. In Marocco, che è un’eccezione nell’area, solo da quest’anno si è deciso di mettere mano ai testi scolastici religiosi per fare pulizia, eliminando i riferimenti di violenza e jihad. Gli altri Paesi dormono mentre il jihadismo no, perché ha dimostrato di conoscere molto bene i giovani e le loro frustrazioni ma, soprattutto, conosce molto bene anche i nostri giovani di cultura musulmana che vivono in Occidentale.

Sa quanto la sfida, qui, sia più ardua e quanto metta alla prova, rispetto al altri contesti, la costruzione di una identità pacificata con se stessa e con la pluralità religiosa.

Il primo video dell’IS aveva come protagonista una seconda generazione che parlava in inglese. Il suo obbiettivo era chiaro fin dall’inizio: il futuro, attraverso le seconde generazioni che vivono in Occidente. Che, infine, vivono al di fuori dei dettami islamici, ancora meglio se delinquenti e rinnegati dalla comunità perché lontani da essa.

Il vero pericolo, la sfida dell’Islam, è anche questo. Combattere se stesso accettando al suo interno la diversità, togliendo dalla gogna la parola “infedele” meritevole di inferno e morte terrena secondo la lettura classica. Una diversità amplificata vivendo da musulmani in un contesto occidentale. Le seconde generazioni che risiedono in Occidente non possono essere condannate o all’ortodossia o all’essere incriminate per le loro scelte di vita fuori dagli schemi tradizionali, come rinnegati, traditori e infedeli con tutto ciò che ne consegue psicologicamente. E che può avere come atto estremo l’abbraccio del jihad. È la chiave della casa offerta dall’Isis per riconciliare queste anime ribelli.

Se l’islam non affronterà questo tema – che è alla base del fondamentalismo e si nutre della rinnegazione dell’altro quando non è musulmano ma appartenente ad altre religioni; quando è apostata, e oggi anche quando è un giovane di seconda generazione che vive una quotidianità fuori dai dettami religiosi – si avvierà ben presto al suicidio, per mano di chi in nome del jihad vorrà dimostrare di essere più islamico dell’Islam.


×

Iscriviti alla newsletter