Valeria Giannotta è docente di Relazioni internazionali all’Università dell’Aeronautica turca dopo un dottorato in Istituzioni e politiche, dove ha iniziato a focalizzare la propria ricerca sulla Turchia. Laurea triennale in Scienze politiche e delle relazioni internazionali e specialistica in Scienze delle relazioni internazionali e dell’integrazione europea alla Cattolica di Milano, Erasmus a Lisbona con tesi sul processo di state building in Iraq dopo la caduta di Saddam e laurea a pieni voti con il professor Vittorio Emanuele Parsi. Dopo aver frequentato i cicli di incontri The Leading Scholars Program dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri), il vero punto di svolta per Valeria è il dottorato all’Università del Bosforo a Istanbul nel marzo del 2009.
Formiche.net ha intervistato Valeria Giannotta durante il workshop del Nodo di Gordio “Soft power hard power, nuovi scenari lungo le vie della seta” che si tiene a Pergine Valsugana (Tn) con partecipazione e patrocini di molte istituzioni, dall’Osce al Cnr.
Come possiamo definire e descrivere la situazione in Turchia?
La Turchia è tornata in uno stato di calma apparente. La vita quotidiana procede regolarmente, lo stato d’emergenza non si avverte: è sostanzialmente una questione procedurale interna per agevolare le investigazione e l’applicazione delle norme. All’interno delle istituzioni, università comprese, vi è un’atmosfera sospesa: fino al 5 agosto è in atto una sorta di screening e di esame per individuare componenti guleniste o a lui vicine. Nel frattempo negli uffici pubblici sono state avviate epurazioni di massa, istituti privati ispirati da Gülen sono stati chiusi e migliaia di persone sono sotto inchieste per le loro affiliazioni. Tali manovre riscontrano un grande supporto popolare come dimostrato dai caroselli notturni e dalle attestazioni di simpatia nelle piazze di Ankara e delle altre maggiori città del Paese.
Se la tesi dell’autogolpe è eccessiva, possiamo dire che Erdogan ha abilmente strumentalizzato l’accaduto?
La tesi dell’autogolpe non solo è eccessiva ma totalmente distorta. Un tentativo di golpe c’è stato e la portata è stata seria soprattutto ad Ankara dove, a differenza di Istanbul, fino alle prime ore di sabato sono piovute bombe dal cielo colpendo anche il Parlamento. I militari hanno però fallito e il vero colpo lo ha messo segno Erdogan riconfermandosi leader indiscusso, riuscendo a ricompattare tutti i settori della società con uno spiccata retorica nazionalista. Non è trascurabile che dopo 15 anni di potere Akp è la prima volta che tutti i partiti di opposizione in parlamento (Chp; Mhp; Hdp) hanno unanimamente condannato il golpe sostenendo il governo legittimamente eletto. Vi è poi consenso sociale nei confronti di Gülen, ritenuto colpevole da più del 95% della popolazione. Questo legittima sostanzialmente il potere assoluto del Presidente e le relative manovre degli ultimi giorni.
Magistrati, giornalisti e militari sembrano quindi essere le categorie più a rischio.
Le categorie a rischio sono tutti coloro che appartengono al movimento Hizmet di Fetullah Gülen. Ricordiamo che Gulen è stato un grande alleato di Akp fino al 2013, ha goduto degli effetti positivi della normalizzazione della politica messa in atto dall’attuale governo, permeando ogni strato della società. Proprio Gulen ha sostenuto il referendum del 2010 che ha permesso la revisione delle nomine della composizione della corte costituzionale e della magistratura. Come tutti i matrimoni di convenienza, anche questo era destinato a naufragare come è stato evidente negli avvenimenti del 17 dicembre 2013 da cui è discesa una sorta di lotta di potere con relative manovre epurative. Quello a cui assistiamo oggi con forza è in verità un processo già iniziato da qualche anno. Il fallimento del golpe ha solo legittimato politiche di repressione massiccia in chiave antidissidenti.
È sicuramente eccessivo temere l’instaurarsi di un regime islamista ma il rischio che lo stato laico sia ancor più compromesso è concreto? Quale potrebbe essere la deriva?
La Turchia è storicamente uno stato laico. Questo non è messo in discussione. Con Akp la componente religiosa è molto più visibile ma non perché prima non esistessero istanze conservatriceìi, ma perché erano sostanzialmente controllate, contenute ed emarginate dal gioco politico sociale. Erdogan ha normalizzato le relazioni ripristinando una logica di legittimazione bottom-up. Il vero rischio di oggi è quello di un governo che agisca in un sistema senza più pesi e contrappesi, in una posizione di assoluta predominanza nello spazio pubblico.
Il ruolo degli Usa quale è stato? E il silenzio delle grandi nazioni occidentali nei primi momenti del golpe come va valutato? Gulen può avere invece avuto effettivamente un ruolo?
Gulen vive in Pennsylvania sin dagli anni ’70, la Turchia prima con i generali e oggi con Erdogan, ne ha ripetutamente richiesta la estradizione, questione pungente per le relazioni bilaterali. In gran parte della società turca vi è la convinzione che Gulen sia un prodotto americano in mano a Cia e Fbi. Indipendentemente dalle speculazioni, oggi i rapporti hanno diverse criticità riconducibili anche al supporto della componente curda nei territori siriani (per la Turchia il PYD è la costola gemella del PKK e quindi un’organizzazione terroristica da combattere). Il silenzio delle grandi nazioni va valutato come una sorta di antipatia nei confronti di Erdogan. La Turchia oggi non gode di grande credibilità e simpatia in nessun salotto occidentale, né nei gruppi di destra né di sinistra.
Dopo i durissimi momenti di tensione, la nuova situazione può invece preludere a una stretta dei rapporti con Putin e, se sì, questo cosa significherebbe?
È prevista nei prossimi giorni la visita di Erdogan a Mosca. La pace fatta con la Russia è una sorta di ritorno alla realpolitik e ha diversi risvolti. Internamente è giutificata da interessi energetici, turistici e commerciali; regionalmente da una apparente convergenza in Siria dove Mosca, dopo essersi assicurata il controllo della basi strategiche, sembra essersi ammorbidira sull’idea di una transizione post Assad.