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Che cosa pensa Donald Trump di Erdogan, della Nato e della Russia

La convention dei repubblicani americani si avvia alla conclusione, è prevista per oggi, giovedì 21 luglio, l’accettazione della candidatura alla presidenza da parte di Donald Trump, che ha già ricevuto l’avallo dalla maggioranza dei rappresentanti; si escluda Ted Cruz, che non ha fornito l’endorsement al candidato, ha chiesto agli elettori di “votare secondo coscienza”, sottolineando una spaccatura nel partito che ha costretto il senatore a lasciare il palazzetto tra le contestazioni dei delegati trumpisti che gli urlavano “traditore” (una scena mai vista prima a una convention, oltretutto successa in diretta prime time nazionale). Poche ore prima, dalla sua suite in un hotel di Cleveland (probabilmente la “Presidential” al Westin Downtown, rimesso a nuovo due anni fa), l’uomo che il Grand Old Party vorrebbe condurre verso la Casa Bianca ha dato un’intervista al New York Times in cui ha delineato molto della sua visione in politica estera e del ruolo – non secondario – dei suoi Stati Uniti nella politica globale: e molte di queste letture si legano al rifiuto di Cruz, politico amato e rispettato, che interpreta posizioni più di destra di Trump sui temi etici e che sottolinea, in linea con i principi storici repubblicani, la necessità di un’America protagonista dello scacchiere internazionale.

DUE SEGNALI

Due i passaggi cruciali, da rimarcare, invece, nell’intervista di Trump al Nyt: non chiederei a Recep Tayyp Erdogan di interrompere le purghe repressive dopo il fallito colpo di Stato, e non vorrei che Washington intervenisse automaticamente al fianco dei paesi Baltici minacciati dalla Russia. Sono esternazioni che minano anni di dottrine geopolitiche, militari, strategiche. La Turchia, il secondo esercito Nato, è un alleato centrale nella stabilizzazione dell’area Mediorientale, nevralgica e in continuo fermento, e il rafforzamento di una presidenza dittatoriale è tutto quel che non serve all’Occidente. “Io do grande credito a lui [Erdogan] per essere in grado di cambiare le cose”, ha detto Trump a proposito del tentativo di golpe nella notte di venerdì scorso: “Alcuni dicono che è stato messo in scena, ma si sa che io non la penso così”. Allo stesso tempo la situazione sul Baltico, con la Russia che esercita hard e soft power espansionistico, è una delle principali preoccupazioni dell’Alleanza Atlantica, che vede nel bilanciamento in deterrenza sul fronte orientale un segno importante della propria strategia con Mosca. Sono due argomenti delicati, che aprono a scenari enormi.

GLI ALLEATI

Il punto su cui batte Trump è semplice: che contributo danno questi paesi alla Nato? Perché dovremmo difenderli? Non è del tutto nuovo come richiamo, anche se detto in parole notevolmente più esplicite e spinte: ridefinire “ciò che significa essere un partner degli Stati Uniti”. Anche il presidente Barack Obama ha in diverse occasioni recenti calcato la mano sull’argomento: la questione è annosa, e riguarda l’investimento di minimo il 2 per cento del Pil in tecnologie di difesa, richiesto dagli accordi dell’alleanza. Quasi tutti i paesi europei, alle prese con una spending review che ha pescato nel settore Difesa e Sicurezza per permettere la conservazione di altri asset, sono andanti in deroga (eccetto l’Estonia); tra questi, per esempio, l’Italia, direttamente richiamata ai propri doveri dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg qualche mese fa. Sul tema, in variazione libica, l’intervista all’Atlantic, ormai diventata un pezzo dell’antologia della frustrazione di Obama nei confronti di alcuni partner militari, definiti “free riders“, scrocconi. “Non è più conveniente” quest’era di “generosità” americana, ha detto Trump, che forse anche per i suoi termini espliciti e poco poll-corr s’è accattivato parte dell’elettorato americano; contro, l’establishment rappresentato da Hillary Clinton, che spesso passa tra i cittadini statunitensi come parte e prosecuzioni degli attuali problemi americani e del mondo, spinto anche dalla narrativa nazionalista al limite dell’isolazionismo del repubblicano, quell'”America First” che sarà il “grido di battaglia”nel discorso d’incoronazione, scrive il NYTimes .

IL RUOLO AMERICANO NELLA DOTTRINA TRUMP

L’intervista concessa Maggie Haberman a David Sanger, corrispondenti sulle presidenziali e sulla National Security del giornale newyorkese, rinnova il distacco tra l’approccio della nuova dottrina-Trump e quella internazionalista dell’America come “nazione indispensabile” per gli equilibri mondiali, che ha caratterizzato i repubblicani dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Trump dice che anche se per assurdo la Russia dovesse attaccare gli stati Baltici, lui valuterebbe la possibilità di difenderli controllando prima la loro posizione come alleati, se hanno “adempiuto ai loro compiti verso di noi”. “Stiamo spendendo una fortuna in militare, al fine di perdere 800 miliardi di dollari”, ha detto citando quelle che ha definito le perdite commerciali dell’America: “Non mi sembra molto intelligente”. “Mr. Trump ha ripetutamente definito gli interessi globali americani quasi esclusivamente in termini economici. I ruoli come peacekeeper, come fornitore di un deterrente nucleare contro avversari come la Corea del Nord, come un sostenitore dei diritti umani e come garante dei confini alleati, sono stati ciascuno rapidamente ridotti a questioni di beneficio economico per gli Stati Uniti” scrivono i due giornalisti del New York Times. Ed è la spiegazione definitiva alla politica estera delineata dal candidato repubblicano alla Casa Bianca. Quella che preoccupa gli alleati, e che sta dietro alla spaccatura nel Gop: Cruz ha un piano a lunga mandata, spera nelle elezioni del 2020. Se vince Trump farà opposizione interna e il filibustiere al Congresso rimarcando i principi storici del partito, se perde sarà il nuovo, prossimo leader.

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