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Perchè la vocazione manifatturiera dell’Emilia-Romagna può rilanciare la crescita

L’economia dell’Emilia Romagna ha sopportato meglio la crisi del biennio 2008 – 2009 e attualmente il PIL regionale cresce più della media nazionale (l’1,2% nel 2015 e l’1,5% in previsione nel 2016) nonostante la ricaduta recessiva del 2012 – 2013, aggravata nella regione dal sisma del 2012 che interessò un’aerea densamente popolata di attività produttive, specialmente manifatturiere. Il Rapporto ORTIIl sistema economico emiliano – romagnolo e i rapporti tra le amministrazioni del territorio e le imprese” presentato da I-Com lo scorso 25 luglio a Bologna, descrive un’economia regionale con un buon grado di apertura internazionale e una struttura industriale grazie alla quale si colloca tra le 8 regioni europee a maggiore vocazione manifatturiera. La quota del valore aggiunto manifatturiero nella regione sfiora il 23%, un dato non solo superiore alla media nazionale (ancora al 15,3%) ma già superiore a quell’obiettivo del 20% di Europa 2020, lanciato dalla Commissione Europea. Le uniche cinque regioni italiane dove il valore aggiunto del comparto si avvicina a questa percentuale sono, nell’ordine, Veneto ed Emilia Romagna (22,7%), Marche (21,7%), Lombardia (19,9%) e Friuli – Venezia Giulia (19,6%).

Durante la crisi il settore manifatturiero emiliano – romagnolo ha sofferto più della media delle attività economiche, ma nonostante questo sembra essersi ripreso più rapidamente, tornando negli ultimi anni ai livelli assoluti di valore aggiunto che si osservavano nel 2005. Non si può affermare altrettanto per l’Italia né per l’area settentrionale, dove il valore aggiunto delle attività manifatturiere si trova ancora oggi ad essere molto inferiore ai livelli pre – crisi. Questo è particolarmente rilevante se si pensa che l’Emilia Romagna è anche una delle 23 regioni europee in cui l’occupazione del settore manifatturiero rappresenta più di un quarto dell’occupazione totale. Allo stesso tempo i vantaggi comparati sui mercati internazionali dei comparti della manifattura della regione, dove presenti, si sono fortemente ridotti nel tempo a volte sino a scomparire (è il caso del tessile – abbigliamento e degli apparecchi elettrici). La riduzione della dispersione della struttura dei vantaggi / svantaggi comparati, avvenuta in generale anche in Italia, è il sintomo di un modello di specializzazione commerciale che è cambiato allontanandosi dai settori tradizionali (ad esempio il tessile e il sistema casa) a favore di una riduzione degli svantaggi comparati in alcuni settori a forti economie di scala (in particolare automotive) e ad alta intensità di ricerca (in particolare la chimica – farmaceutica)[1]

Il manifatturiero è uno dei tratti distintivi del sistema economico regionale e ad oggi non si può prescindere dalla sua capacità di sviluppo: è lì che si concentra la maggior parte dell’attività di ricerca e innovazione tecnologica ed è da li che prende vita la quasi totalità delle esportazioni. L’Emilia Romagna è una regione fortemente vocata al commercio internazionale ma le sue esportazioni, che fino al 2008 crescevano a tassi vicini al 10%, faticano oggi a tornare alla vecchia gloria. Anche se a partire dal 2012 la dinamica è positiva e in accelerazione, su di essa pesa il rallentamento del commercio mondiale che nel 2015 cresceva solo del 2,7%: stagnante se confrontato con la media del 5% che lo ha caratterizzato sin dal 1990. Franco Mosconi, professore di economia industriale presso l’Università degli Studi di Parma intervenuto in occasione della presentazione del rapporto a Bologna, ha fatto riflettere proprio sulle difficoltà che questo contesto può generare su una struttura produttiva regionale sì con una buona apertura internazionale ma con un’industria che necessita ancora, oggi più che mai per vincere sui mercati internazionali, di un irrobustimento dimensionale. La dimensione delle imprese emiliano – romagnole è infatti prevalentemente piccola anche se rispetto alla media italiana la percentuale di imprese nella classe 0 – 9 dipendenti è inferiore (il 41,5% in Emilia Romagna contro il 46,6% in Italia). Si nota anche una maggiore quota di imprese con un numero di dipendenti superiore a 250 (il 23,8% in Emilia Romagna contro il 21,2% in Italia) e anche di imprese di media dimensione. Molto sicuramente dipende dalla presenza di multinazionali, tipicamente di dimensioni maggiori: sono 317 le imprese a partecipazione estera solo nell’industria manifatturiera (ICE – Reprint 2013), con un fatturato medio di 47 milioni di euro. Per superare il fenomeno del nanismo di impresa, sottolinea più tardi nel suo intervento il Professor Mosconi, non è più tempo di pensare alla creazione di realtà distrettuali, ormai presenti naturalmente in determinati settori e non riproducibili “in provetta”. Sarebbe invece il momento di pensare ad interventi di politica industriale che incentivino l’aggregazione di imprese e che, contemporaneamente, favoriscano la capacità di attrarre Investimenti Diretti Esteri sul territorio. Al di là della ricca letteratura riguardante gli effetti degli IDE sull’economia di destinazione, con risultati non sempre univoci ed esternalità non facili da identificare, è infatti riconosciuto che questi capitali siano volano per la crescita degli investimenti materiali, immateriali e in capitale umano qualificato. Il binomio manifattura – internazionalizzazione è allora centrale per poter affrontare le attuali sfide del mercato globale e sostenere la crescita, cavalcando l’onda della rinascita del settore manifatturiero che grazie all’innovazione tecnologica continua a rivoluzionare l’industria nel mondo.

[1] Cfr Fig. 1.13 p. 22 del Rapporto ORTI “ Il sistema economico emiliano – romagnolo e i rapporti tra le amministrazioni del territorio e le imprese”.



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