Rientro da un viaggio negli States che mi ha riportato oltre la quota dei sogni della mia adolescenza. Un viaggio che non ho fatto per me ma per i miei figli. Ho voluto cominciare a far comprendere loro come può girare il mondo oltre le mura aureliane.
Negli Stati Uniti si è da poco conclusa la Convention Democratica che ha inviato un chiaro segnale a favore delle diversità, delle disabilità, del welfare state e del completamento della riforma sanitaria di Barack Obama, ma soprattutto delle minoranze, da quella nera a quella latinoamericana. Tim Kaine, il candidato vice presidente, è stato il primo a tenere un discorso al Senato interamente in lingua spagnola. Una Convention che ha visto l’endorsement pieno ed incondizionato di Bernie Sanders, ala sinistra perdente del partito che con la sua passione politica ha infiammato la middle class americana. Hillary, assente nei primi tre giorni, ha chiuso la Convention mantenendo un profilo basso, ribadendo il mantra democratico contro Trump.
“Donald Trump simply has no credibility or standing to represent American interests abroad. His small-minded, unstable temperament, his shocking incoherence regarding the norms and details of foreign policy, and his dangerous ideology are all completely disqualifying”. “Donald Trump has not the standing to be the Chief, the Commander, the President of the USA”.
La reazione non si è fatta attendere sul punto forse più controverso dell’intera campagna elettorale. La riforma del 2nd Amendment della Costituzione americana. Per capirci quello che consente a tutti i cittadini di possedere un arma di difesa personale. Trump sostenuto dalla potentissima ARA (American Rifle Association) accusa Hillary di avere in mente una modifica che limiterebbe il possesso delle armi. Fino al punto di agitare la folla dei “gunners” contro la candidata democratica, arrivando a minacciarne la sicurezza. Hillary si affretta a smentire anche se all’interno dei Democratici c’è un forte dibattito.
Gli Stati Uniti sono un paese politicamente diviso a metà, con scenari da guerra fredda e le intelligence mondiali a sostegno dell’uno o dell’altro candidato Presidente. Insomma, più che una campagna elettorale un teatro di guerra. I repubblicani puntano su alcuni elementi forse poco noti all’opinione pubblica internazionale ma molto suggestivi per il popolo americano e non solo. Il suo è un messaggio anti sistema e forzosamente antiestablishment amministrativo. Ma il punto meno noto è che il possibile gruppo di governo di Trump è considerato un “dream team”, forte e credibile per la destra repubblicana ma anche per buona parte del ceto moderato. E se non ci fosse stato l’endorsement di Michael Bloomberg, amatissimo ex sindaco indipendente di New York nel corso della Convention di Philadelphia, Hillary sarebbe stata ancor piú schiacciata a sinistra e la sua proposta politica sarebbe ancora meno credibile per quegli elettori decisivi negli swing states. Per intenderci, i tre o quattro Stati il cui consenso è “to close to call” e che in ogni elezione rappresentano l’ago della bilancia per vincere o perdere. Ohio, Florida, e in questa occasione anche Iowa, Pensylvania e Colorado.
Il mantra di Trump e del GOP che lo sostiene è invece: “Hillary is a liar”, Hillary è sostenuta dai poteri forti della finanza a lei contigua da oltre un ventennio e dall’establisent amministrativo e di governo. A nulla sembra valgano gli appelli della candidata democratica contro banche e Wall Street “I believe Wall Street can never, ever be allowed to wreck Main Street again” recita Hillary a ripetizione. E il recente wikileaks degli email inviati dal comitato elettorale per indebolire la candidatura di Sanders è terreno fertile per gli attacchi politici di Trump. Certo il curriculum della candidata democratica è impressionante e farebbe impallidire qualsiasi oppositore che voglia competere sul piano dell’esperienza politica e di governo. Ma tant’è Trump ha risposto con un vero e proprio dream team.
Se sulla sua figura piovono forti critiche di inesperienza e improvvisazione, anche dall’interno del Partito Repubblicano, personalità di peso sono con lui, come Rudolph Giuliani e l’ex Procuratore Generale Michael Mukasey, elemento di grande spessore che si è occupato delle prime indagini sull’attentato alle torri gemelle e di terrorismo internazionale. E alla fine anche la proposta di Donald Trump, almeno quella sul piano interno e sulla quale ovunque nel mondo si basa il consenso elettorale, appare molto solida per il ceto più conservatore del Paese.
Questo il teatro politico, che ci vede spettatori di una sfida senza esclusione di colpi.
Perchè l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America è una sfida globale che coinvolge gli equilibri più intimi del nostro pianeta. Equilibri che all’interno del paese si traducono ad esempio nell’elezione dei giudici della Suprema Corte e che a livello internazionale riguardano tra l’altro la posizione degli USA nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
E gli americani, in tutto questo, cosa fanno? Lavorano e si stringono sotto la bandiera. Apparentemente incuranti di quanto sta accadendo intorno a loro con una sola idea in mente. Chiunque vinca non sarà un successo. L’esperienza di Obama è vissuta sotto una luce positiva. E questo Hillary se lo porta in dote. Barack Obama ha ereditato un Paese in grande difficoltà e tutti gli indicatori macroeconomici sono oggi in crescita. Domanda interna su, disoccupazione giù, crescita degli investimenti esteri, dollaro più forte, tassi di interesse ancora bassi, ripresa della produzione industriale, riforma del sistema sanitario, risoluzione delle crisi bancarie e aiuti alle grandi imprese strategiche. Ma a cosa è effettivamente dovuta questa ripresa? La politica e solo un tassello e neanche il più importante. Gli Stati Uniti sono un Paese grande e complesso ma hanno scelto dove andare premiando un individualismo valoriale basato su etica del lavoro e nazionalismo. Si può essere o meno d’accordo ma i cittadini (non la politica) hanno scelto una strada e chiunque andrà al governo rispetterà questa idea di fondo che nessuno né Trump né Hillary, né Sanders né McCain si sognerebbe di mettere in discussione. In una parola sono i cittadini americani ad avere le idee chiare su dove e come condurre il Paese.
Rientro sempre con gioia dai miei viaggi, ma questa volta sono stato assalito da un disagio forte. La consapevolezza che il nostro Paese non riesca ad avere una visione e per questo non possa uscire da un provincialismo di quartiere, di circolo, di partito, tutto avvitato su un individualismo sterile senza una ragione di futuro. Sì perché è qui la differenza sostanziale tra noi e loro. Noi ancora immaginiamo che la politica possa da sola cambiare le cose. Una filosofia, la nostra, che prende le mosse da una profonda etica cattolica e da quel surrealismo vetero comunista ancora presente nel Paese. Ci piace pensare così. Andiamo a dormire più sereni, meno carichi di stress e responsabilità. Sappiamo che un capro espiatorio si troverà nella politica e nei politici se le cose dovessero non andare per il verso giusto. Come se fossero un corpo estraneo un agnello sacrificale. E cosi facciamo di tutto per renderla ancora più debole, meno autorevole, meno capace di cambiare veramente le cose. La politica degli ultimi venticinque anni non ha fatto altro che interpretare questa volontà popolare. Penso quindi che il nostro Paese abbia prima di tutto bisogno di una grande seduta psicoanalitica Junghiana. Un momento di riflessione collettiva per capire chi siamo e cosa vogliamo effettivamente essere. Per recuperare fiducia in noi stessi, oggi si direbbe autostima. La prima rottura di questa impasse l’abbiamo avuto con il Governo Renzi e il paese ha reagito in modo scomposto come un adolescente al quale rubano i propri sogni. Oggi siamo in mezzo al guado e nessun politico potrà veramente cambiare le cose, senza che siano gli italiani a ritrovarsi in una visione collettiva, dietro un valore condiviso, un’idea di Paese. Ma soprattutto senza che gli italiani riprendano ad avere fiducia in sé stessi dalle 9 alle 5 orario continuato.