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Chi era davvero Papa Luciani. La testimonianza di Parolin

Di L'Osservatore Romano

Non una semplice «parentesi» o «un breve capitolo di storia dei Papi». Piuttosto «una forte e indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa». Così il cardinale Pietro Parolin legge il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, succeduto a Papa Montini il 26 agosto 1978 e morto dopo appena 33 giorni, il 29 settembre. Se «il governo di Albino Luciani non si è potuto dispiegare nella storia» — è la convinzione del segretario di Stato — egli ha comunque concorso in modo decisivo a rafforzare il disegno di una Chiesa «che è risalita alle sorgenti con il concilio e che nella semplicità e nella povertà evangelica si piega a servire il mondo, facendosi prossima alle realtà umane e alla loro sete di carità».

Confessando la sua «particolare devozione» verso il Pontefice veneto, il cardinale ne ha tratteggiato le radici umane e il profilo pastorale proprio nel cuore della terra che a Luciani ha dato i natali: Canale d’Agordo, il paese dove è nato il 17 ottobre 1912 e dove, nel pomeriggio di giovedì 25 agosto, il segretario di Stato è intervenuto alla presentazione del numero speciale della rivista «LeTre Venezie» dal titolo Giovanni Paolo I. Albino Luciani, un Papa attuale. Della pubblicazione, edita in occasione del trentottesimo anniversario dell’elezione, lo stesso porporato ha scritto una delle due prefazioni, mentre l’altra è firmata dal prefetto della Congregazione per il clero, il cardinale Beniamino Stella, postulatore della causa di beatificazione e canonizzazione del Pontefice.

Originario di un angolo «periferico» ma tutt’altro che «marginale» nella geografia civile e religiosa italiana, Luciani ha respirato a pieni polmoni sin da giovanissimo la «vitalità culturale ed ecclesiale» di una terra che ha visto, tra l’altro, l’opera pionieristica svolta nel campo sociale ed educativo da sacerdoti come Antonio Della Lucia e Filippo Carli. Del resto, ha fatto notare il cardinale Parolin, «al concilio ecumenico Vaticano II, caso forse unico al mondo, questa piccola parrocchia montana contava tra i padri ben tre dei suoi figli».

In questo «piccolo mondo del Veneto» — un mondo rurale e operaio segnato allora dal «sacrificio del lavoro», dalle difficoltà dell’emigrazione, dalla ricerca di un «riscatto sociale guidato dalla solidarietà del corporativismo» — la religione non era «una sovrastruttura ma un tessuto connettivo e d’integrazione». Ed è proprio qui che va ritrovato l’humus nel quale sono maturate «la sensibilità cristiana, l’apertura umana e culturale, l’intelligenza pastorale e sociale del futuro vescovo di Vittorio Veneto, del patriarca di Venezia e del successore di Pietro».

Alla lungimiranza dei cardinali riuniti nel primo conclave del 1978 questo peculiare «retroterra sociale e culturale» non era apparso «un limite ma un elemento positivo e importante». Lasciando da parte calcoli e strategie “politiche”, essi si erano pronunciati «soltanto secondo un criterio ecclesiale, quello cioè di mettere al centro la più importante qualità di un vescovo: il suo essere pastore». Virtù rivelatasi poi «dirimente» nella scelta di un uomo «che aveva vissuto nel gregge e per il gregge, aveva condiviso i dolori della sua gente e in modo particolare dei poveri e degli emigranti, aveva accompagnato i travagliati percorsi dei preti del suo tempo». In Luciani i porporati avevano trovato «un padre, nutrito di umana e serena sapienza e di forti virtù evangeliche, esperto delle ferite dell’uomo contemporaneo e delle esigenze dell’immensa moltitudine degli emarginati che vivono fuori dell’opulenza»: avevano eletto «il sacerdote che crede nella potenza della preghiera, capace di sfidare l’indifferenza con l’amore».

Per il segretario di Stato l’immagine «decisiva e feconda» che connota la pastoralità di Giovanni Paolo I è quella della Chiesa come mysterium lunae: una Chiesa, cioè, «che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa, che non è proprietà degli uomini, ma Christi lumen». Da qui la scelta di indossare «le vesti della povertà e della semplicità»: non certo — ha precisato il cardinale — «la povertà del populismo» che alimenta «la vicenda romantica e paternalistica del modesto prete di campagna», ma la povertà «storica ed esistenziale» che per Luciani «affondava le radici nel mai dimenticato fondamento di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, sul modello di Cristo». In lui, del resto, «si coniugavano felicemente nova et vetera». E, nell’«assoluta coincidenza tra quanto egli insegnava e quanto viveva», appariva credibile «il volto della mitezza e quello della fermezza, della comprensione e del rigore, della misericordia e della sicurezza della dottrina».


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