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Perché sarà la Cina a festeggiare per lo stupido affossamento del Ttip

Stefano Cingolani

Il trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti d’America è saltato non per colpa della mozzarella, degli Ogm o del buy American che costringe chi partecipa alle gare d’appalto negli Usa ad utilizzare risorse locali per almeno il 50 per cento. No, la responsabilità è del popolo. Il Ttip è finito in un vicolo cieco perché ci sono le elezioni per la Casa Bianca a novembre, e l’anno prossimo per l’Eliseo e per la Cancelleria. Negli Usa, in Francia, in Germania (o anche in Italia), nessun leader politico se la sente di sfidare una opinione pubblica fortemente influenzata da potenti gruppi di pressione e interessi ben radicati.

Donald Trump cavalca da destra il no global, Hillary Clinton ha evitato di far riferimento al negoziato sul quale aveva puntato Barack Obama, François Hollande pensa ai voti (e ai soldi) degli agricoltori, Angela Merkel al complesso finanziario-industriale che è il perno del Modell Deutschland. Tutti insieme, più o meno appassionatamente, lisciano il pelo a un nuovo senso comune decisamente contrario alla globalizzazione. Insomma, i persuasori occulti sono riusciti a far passare il messaggio che la crisi delle economie occidentali è colpa del libero scambio. E, nelle odierne democrazie popolari, i politici non osano sfidare questo Zeitgeist geneticamente modificato.

E’ davvero ingenuo credere che il negoziato possa essre ripreso a breve termine. Anche perché le elezioni non finiscono mai (al più tardi nel 2018 si vota anche in Italia e nel 2019 scade l’attuale governance europea). E’ facile prevedere, dunque, un futuro immediato all’insegna di un ritorno al protezionismo, e questa volta non più mascherato. I no global di destra e di sinistra mettono a segno un successo. Ma ad approfittarne sarà soprattutto la Cina, sì, proprio la potenza economica che, secondo i neoprotezionisti, sarebbe la responsabile principale della perdita di milioni di posti di lavoro nell’industria americana e in quella europea.

Pechino non ama certo la nascita di un’area sempre più integrata tra Nord America ed Europa occidentale. La sua idea di commercio internazionale si basa su una logica geopolitica, anzi di potenza. E può esercitare al meglio i propri interessi nazionali giocando su tavoli separati. Vedremo cosa cambierà nei confronti degli Stati Uniti, cioè se la nuova amministrazione metterà fine a un rapporto privilegiato nato con Richard Nixon nel 1972; certo è che avrà buon gioco con una Ue sempre più divisa. E’ fuorviante far credere che gli europei si siano mossi come un sol corpo nei confronti degli interessi americani. In realtà, ciascuno ha cercato di tutelare il proprio particolare. Alla fine, nessuno ha difeso l’interesse generale. Altro che popolo, altro che democrazia.

Ma la globalizzazione non ha ricevuto una simile sberla anche per colpa sua? Di quel che ha provocato, delle promesse non mantenute, persino dei suoi stessi successi che si sono clamorosamente interrotti con la crisi finanziaria del 2008. E’ vero, tuttavia se la risposta è il ritorno al passato, l’occidente delle democrazie popolari e delle classi dirigenti pavide e senza visione consumano una sconfitta che peserà a lungo sul nostro futuro.

Ancor più graverà sui paesi europei. Gli americani si difenderanno meglio, non c’è dubbio. Il centro dell’innovazione tecnologica ed economica è pur sempre in America. E anche se il vento protezionista spira forte oltre Atlantico, gli Stati Uniti restano legati al libero scambio. Quanto alla Cina, adesso ha bisogno di alzare delle dighe per favorire la difficile transizione verso “la crescita sostenibile”, “l’era dell’armonia” o comunque si voglia chiamare questa fase più matura del suo processo di sviluppo. Tuttavia la svolta liberoscambista le ha consentito di uscire dalla miseria e diventare la “fabbrica del mondo”.

Qui nel vecchio continente abbiamo invece il trionfo di quelle che, viste dall’esterno, sono liti di condominio. Igp, Docg, Dop e via dicendo, queste sigle che richiamo le gilde medievali, possono avere un senso all’interno di una cornice più vasta. Lasciate a se stesse, cioè agli interessi locali, anche queste normative sono destinate al fallimento. Chi ha creduto a una propaganda lobbistica spacciata per sicurezza, protezione, identità, nazione persino, si dimostra un utile idiota.

Può sembrare un discorso da globalista nostalgico se fior di economisti premi Nobel teorizzano che un’altra strada è possibile. Bisogna ripartire dal basso, ha scritto Larry Summers che alla fine sembra dar ragione al suo vecchio avversario Joseph Stiglitz. Ben detto, anche se nessuno capisce come a da dove. Il libero scambio può essere “governato”, cioè temperato da una serie di misure che accompagnano la transizione, si prendono cura di chi non ce la fa, ammortizzano le conseguenze sui perdenti, spalmando su una platea più vasta i guadagni dei vincitori. E’ la versione riformista di un processo che al fondo viene condiviso. E’ la risposta razionale alle contraddizioni aperte da questa nuova fase. Purtroppo è in minoranza, il fallimento del Ttip lo dimostra. La storia non va sempre avanti e oggi stiamo vivendo l’era del gambero.


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