Non possiamo qui farla troppo lunga. Ma occorre comunque valutarla in prospettiva. Dal 1948 al 1993 abbiamo avuto un sistema proporzionale. Combinato con il nostro bicameralismo paritario perfetto ha imposto sempre governi di coalizione. I governi di coalizione (di più partiti alleati) hanno pregi e difetti. Verso la fine degli anni Ottanta – ormai – prevalevano largamente i difetti: instabilità, continue risse anche fra alleati, utilizzo del voto segreto per farsi lo sgambetto, assoluta mancanza di alternanza (governava sempre la Dc con questo o con quello), conseguente irresponsabilità davanti agli elettori (qualunque cosa votassero sempre la Dc più qualcun’altro sarebbero andati al governo), nessun potere concreto agli elettori.
Dalla costatazione di questa realtà ebbero origine le grandi campagne per le riforme elettorali, culminate nei referendum dei primi anni Novanta (e nelle nuove leggi elettorali ad elezione diretta di sindaci e presidenti delle Regioni). Nel 1993 fu varata una legge mista, a prevalenza maggioritaria (relatore Mattarella, l’attuale presidente della Repubblica).
Questa legge si fondava su un compromesso (come sempre, è non c’è da aversene a male): cercava di conciliare la svolta maggioritaria e la proporzionale, l’individuazione degli eletti da parte degli elettori in collegi dove si eleggeva un solo parlamentare (tre quarti del totale) e le tradizionali liste di partito (un quarto dei seggi, senza preferenze: del che allora nessuno si lamentò). L’esito delle elezioni con investitura del governo semi-automatica non era assicurato per legge, ma molto probabile (ed infatti così ha funzionato nel 1994, 1996 e 2001). Per motivi del tutto partigiani, il centro-destra Berlusconi-Fini-Casini cambiò le leggi Mattarella che funzionavano piuttosto bene nel 2005: ne venne fuori la legge Calderoli.
Questa aveva vari difetti: alcuni segnalati subito (a partire dalla incongruenza di cui si è detto al n. 15), altri emersi dopo (le liste bloccate: in realtà il problema non era tanto che fossero bloccate, bloccate erano anche quelle della parte proporzionale delle leggi Mattarella, è che erano lunghissime – fino a 47 candidati, e che ogni candidato si poteva candidare dappertutto). Con le trasformazioni del sistema politico (2013) ha smesso del tutto di funzionare (ma un allarme c’era stato subito, sin dal 2006: infatti quella legislatura col governo Prodi II durò solo due anni). Infine ci si è messa la Corte costituzionale la quale ha deciso che la legge Calderoli era illegittima in due punti: (A) perché il premio veniva attribuito senza che una lista o coalizione di liste ottenesse una percentuale abbastanza elevata di voti (non necessariamente il 50%, ma neanche solo il 10%, com’era previsto); (B) perché con quelle liste lunghe e senza preferenze non permetteva ai cittadini di esprimersi sui candidati presentati da ciascuna lista.
A seguito dalla sent. 1 del 2014 della Corte, così, il sistema elettorale era di fatto tornato ad essere un sistema proporzionale quasi puro (come fino al 1992 compreso, preferenze incluse, anche al Senato – dove invero non c’erano mai state). Ecco perché si è presentata – per opinione semplicemente unanime – la necessità di una riforma.
Il guaio della XVII legislatura è stato però che da un lato occorreva fare le riforme – a partire da quella elettorale (Napolitano docet), dall’altro – di fatto indisponibile, specie ad inizio legislatura, e poi sulle cose più rilevanti tuttora, il M5S – governo e riforme erano necessariamente affidati a un’intesa PD-centrodestra. Né c’era la classica soluzione di nuove elezioni dato che esse avrebbero assicurato esiti simili a quelli del Senato nel 2013 (e in due Camere su due: dalla padella nella brace).
Di qui l’intesa Renzi-Berlusconi (c.d. patto del Nazareno). Si ricorderà che per sbloccare la situazione fra dicembre e gennaio il segretario PD aveva proposto tre ipotesi, dicendo: sono diverse ma possono funzionare (nel senso maggioritario e di garantire un’investitura iniziale del governo e della maggioranza semi-diretti). Le tre ipotesi erano: un sistema di tipo spagnolo (collegi piccoli, proporzionale, nessun recupero dei resti); un sistema detto sindaco d’Italia (adattamento a forma di governo parlamentare intatta del modello comunale); un sistema a collegi uninominali variante delle leggi Mattarella. Dagli incontri con il centrodestra a guida Berlusconi emerse una soluzione più vicina alla seconda (sindaco d’Italia), che costituisce una variante incisiva della legge Calderoli volta (A) a tenere conto dei principali difetti di quella, nonché (B) delle indicazioni derivanti dalla sentenza 1/2014 della Corte costituzionale e (C) ovviamente volta, infine, a produrre i risultati auspicati.
Partiti da un modello che prevedeva un quorum del 32% (misurato di fatto sui risultati elettorali del 2013), una molteplicità di clausole di sbarramento e liste bloccate ma corte (di pochi candidati), nel fuoco del dibattito accesosi in Parlamento, fra i partiti e nel paese, Renzi – approfittando della situazione di grande debolezza di Berlusconi (decaduto dal Senato e ai servizi sociali come pena alternativa!) – è riuscito ad ottenere un testo che risponde in pratica a tutte le esigenze che aveva posto, risponde ai dettami della Corte (anche se su questo si discute ancora), corrisponde in larga misura a posizioni da tempo assunte sia dal PD sia dalle forze politiche che l’hanno preceduto.
La legge 52/2015 (che, coerentemente alla riforma costituzionale, vale per la sola Camera dei deputati), infatti:
– attribuisce un numero fisso di seggi analogo alla legge precedente (340 seggi alla Camera, c.d. premio) in base ai voti ottenuti sul piano nazionale;
– lo subordina al raggiungimento di un minimo del 40% di voti (il che è molto nell’attuale panorama partitico il che rende probabile un secondo turno);
– assegna quei seggi, in caso di non raggiungimento del quorum, a seguito di una seconda votazione di ballottaggio che permette a tutti i cittadini di scegliere fra le due forze arrivate prima e seconda al primo turno dopo un supplemento di campagna elettorale;
– lo assegna a liste senza prevedere coalizioni di liste (venendo incontro all’esigenza di evitare armate Brancaleone di sigle buone a vincere le elezioni ma non a governare: vedi il governo Prodi II del 2006; e risponde in pieno alla strategia fondante del PD come partito “a vocazione maggioritaria”), ponendo le basi di un futuro sistema fondato su due partiti maggiori;
– prevede uno sbarramento per la distribuzione dei seggi ai perdenti del 3% (da taluno criticato perché… troppo basso, in realtà tale da permettere ampia rappresentanza di forze diverse, purché con un minimo seguito nel paese: circa un milione di voti a seconda dei votanti);
– introduce le preferenze (una o due con tutela di genere) per tutti i candidati tranne i 100 capilista che sono i primi eletti in altrettanti collegi;
– riduce a 10 (su 100) i collegi in cui il candidato capolista può venire presentato (ciò permette ai partiti piccoli di far eleggere i propri leader; d’altra parte, se alcuni candidati vengono presentati capilista in più collegi, aumenta corrispondentemente il numero di coloro che verranno scelti tramite preferenze).
Naturalmente nessuna riforma è priva di difetti e neanche questa lo è. Soprattutto nessuna riforma elettorale può piacere a tutti. Critiche sono state sollevate: da chi non vuole il premio alla sola lista (ma non s’era detto che le coalizioni acchiappatutti andavano bandite?), da chi è contrario del tutto al premio, da chi dice che il premio è alto, da chi dice che è basso, da quelli cui non piacciono le preferenze, da quelli cui non piacciono i capilista, da quelli cui non piacciono le candidature multiple, da chi giudica lo sbarramento troppo alto, da chi lo giudica troppo basso, da chi ritiene che non obbedisca alle indicazioni della Corte… (che comunque – proprio grazie alla riforma Renzi-Boschi – deciderà essa stessa prima che sia applicata), e così via. In realtà questa legge elettorale è più che buona. Se ne può ragionare ancora, ma questa “Guida” è dedicata prima di tutto alla riforma costituzionale e non possiamo soffermarcisi oltre, senza andare fuori tema. Di sicuro la riforma elettorale e quella costituzionale vanno bene a braccetto (che poi è paradossalmente una delle principali critiche del “fronte del no”.
Per chi nutrisse ancora dubbi sul modo di eleggere i deputati con la l. 52/2015 (magari a causa dell’insensata campagna sui presunti c.d. “nominati”) il raffronto fra le tre schede è illuminante: in fondo si vede la scheda della Legge Calderoli, censurata dalla Corte: l’elettore trovava esclusivamente simboli di liste (coalizzate o non coalizzate), nessun nome nessuna preferenza. Nel mezzo la scheda per un collegio della Camera della Legge Mattarella (1993-2005): un simbolo e il nome del candidato nel collegio uninominale, nessuna preferenza.
Sopra la scehda dell’Italicum: un simbolo, un nome (il o la capolista), due righe per una o due preferenze (se di genere diverso).
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