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Ecco i veri effetti della riforma della dirigenza statale (vista da un dirigente statale)

Aver tutti contro non è una bella sensazione. I giornali e i media, la politica, il mondo dell’impresa e, soprattutto, l’opinione pubblica: la categoria dei dirigenti pubblici non è mai stata così sola, accerchiata neanche fosse il Settimo Cavalleria a Little Bighorn. E come le giacche blu al comando di Custer, ormai condannate, i dirigenti non possono che attendere l’attacco finale, con la prossima, definitiva approvazione del decreto Madia sulla dirigenza.

Non ci saranno morti e feriti, per carità. E la messa a regime di un sistema che si profila assai farraginoso richiederà, con tutta probabilità, almeno un anno. Infine, nessuna sorpresa: le tante dichiarazioni dell’allora sindaco di Firenze, fin da quando si apprestava a correre per la segreteria del suo partito, non lasciavano adito a dubbi circa le intenzioni che poi sarebbero state messe in pratica. Tuttavia, vanno messe in conto le possibili conseguenze di questa rivoluzione della disciplina della dirigenza pubblica. Molte voci, pressoché isolate, lo denunciano da mesi: la precarizzazione della dirigenza, risultante dal combinato delle norme del decreto, che cancella il diritto all’incarico contenuto nella contrattazione collettiva, recherà con sé un vulnus mortale al principio costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione.

Le ricadute saranno non tanto in capo ai singoli dirigenti – tutto sommato una sparuta minoranza del cui destino importa assai poco alla stragrande maggioranza degli Italiani – ma ai cittadini stessi, i quali avranno come principali referenti donne e uomini sotto schiaffo, operanti in un perenne Purgatorio in cui l’umore della politica potrà determinarne la salita in cielo o la caduta negli inferi. Il tutto, peraltro, con ridottissimi margini di autonomia.

Diciamolo chiaramente, tuttavia: non che la politica, così come la burocrazia, sia di per sé matrigna cattiva e oppressiva. Tutt’altro. La inevitabile tensione che innerva il rapporto fra le due, ove corretto e ben interpretato da entrambe le parti, è positivo per l’efficacia ed efficienza delle politiche pubbliche e, in definitiva, per sfornare buoni servizi alla cittadinanza. Al contrario, ci troviamo oggi davanti alla risoluzione di un braccio di ferro che rischia di danneggiare tutti indistintamente e che, basato su un dibattito tutto ideologico, ha spazzato via la possibilità di ragionare su come rendere migliore la macchina pubblica.

Perché, non dimentichiamolo mai, sarebbe ipocrita e intellettualmente disonesto non riconoscere che le nostre amministrazioni non sono state e non sono il Paese dei Balocchi. Si può poi discutere all’infinito – si è fatto poco e male, purtroppo – di come le tante PA siano diverse fra loro e di quale modello di manager pubblico si voglia e, soprattutto, per quali fini, ma va ribadito in ogni occasione che una pubblica amministrazione esiste per offrire servizi alla collettività che paga le tasse. Non per altro.

La prossima riforma della dirigenza, tuttavia, se il decreto al momento all’esame delle Camere e del Consiglio di Stato sarà approvato nell’attuale formulazione, molto difficilmente contribuirà a questo obiettivo. Nel tentativo dichiarato di mettere la parola fine alla estrema frammentazione di una categoria di servitori dello Stato che, a differenza di prefetti, diplomatici e magistrati, non ha mai saputo farsi corpo, si arriverà alla sua pressoché totale disintegrazione. Investire anni di studio e fatica per vincere un concorso pubblico non porterà che alla mera possibilità di ricevere i galloni da dirigente, concessi e revocati senza legame con l’effettivo operato del Monsù Travet di turno. Tanta fatica per un pugno di mosche, insomma.

È, purtroppo, il risultato di una caccia al colpevole dei mali dell’Italia che ha finito per scassare ogni paletto che regolava la pur travagliata vita dei pubblici uffici, mettendo nel cassetto il fondamentale principio secondo cui la continuità dell’azione amministrativa, in un quadro di leale collaborazione fra livello politico e amministrativo, è la chiave per oliare i meccanismi terribilmente complessi – non necessariamente complicati – delle nostre burocrazie. Mettere la dirigenza nel limbo della messa a disposizione al primo schiocco di dita potrà far felici i complottisti e retropensieristi di casa nostra, o coloro che, sulla scorta di un neo pauperismo di maniera, vedono come fumo negli occhi qualsiasi emolumento superiore ai mille euro, ma certamente non darà una mano a ricostruire le fondamenta del Paese, che di una PA che funzioni e di gente in gamba che la faccia marciare ha disperatamente bisogno.


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