Tra Rivoluzione e Cooptazione di mezzo non ci sono solo i manuali di scienza politica, ma anche il fattore tempo. La parabola tipica del movimentista rampante in Italia inizia sempre sotto le insegne corrusche della prima per concludersi all’ombra riposante della seconda. In genere però il trapasso avviene secondo un itinerario tortuoso, per gradi, e attraversa una fase di ripensamenti e contorcimenti che la prassi vuole si celebri sulle pagine dei giornali. Non così per Maurizio Landini. Il gran capo della Fiom ha ammesso in un’intervista al Fatto Quotidiano di essere in procinto di approdare alla segreteria confederale della Cgil. Negli ambienti sindacali se ne parlava da qualche tempo, ma il fatto che Landini abbia rotto gli indugi in modo così plateale significa una cosa sola: che la sua firma sul contratto dei metalmeccanici (oggi si riapre la trattativa dopo mesi di stallo, scioperi e blocco degli straordinari) da lui stesso menzionata come condizione necessaria al trasloco c’è, come direbbe Totò, a prescindere.
Ovviamente il leader Fiom non fa più cenno alle riserve, avanzate anche in un passato recente, sulla caratura democratica della casa madre. Ma forse qualcuno ricorda un titolo della sua non foltissima bibliografia, “Cambiare la fabbrica per cambiare il mondo”: una requisitoria contro Sergio Marchionne all’indomani del referendum (perso) a Mirafiori. Correva l’anno 2011 e Landini, oltre che con la Fiat, ce l’aveva pure con la Cgil per l’accordo sulla rappresentanza con Cisl e Uil, imposto a suo dire con “logica autoritaria”. La cosa non piacque, per usare un eufemismo, a Susanna Camusso, che rimbeccò Landini durante la presentazione del libro – officiante Lucia Annunziata, che aveva da poco finito di aureolare il condottiero dei meccanici Cgil con la definizione, qualsiasi cosa significhi, di “estremista del pragmatismo” – ribaltando su di lui e sulla sua gestione del potere in casa Fiom l’accusa di autoritarismo, nel palpabile imbarazzo di una platea targata quasi per intero Cgil (per inciso, Camusso non aveva tutti i torti e il tempo l’ha dimostrato: chiedete a Sergio Bellavita, discepolo di Giorgio Cremaschi e numero uno della corrente di ultrasinistra del sindacato rosso, cui il compagno Maurizio ha revocato il distacco sindacale consegnandogli così un biglietto di sola andata per l’antico posto di lavoro).
Sono passati appena cinque anni, la Fiat, oggi FCA, trascina la seppur timida ripresa (grazie agli accordi sindacati firmati da Fim e Uilm – non dalla Fiom), Confindustria ha cambiato i vertici, ma pare un secolo. Il sindacalista che tuonava in difesa dei “diritti”, che si sgolava ad annunciare l’imminente “autunno caldo” appena s’alzava un po’ di frescura settembrina, il tribuno che ad un certo punto aveva ipnotizzato pure qualche salotto romano e che sulla rive gauche del Tevere in molti davano come papabile per la leadership della sinistra diversamente comunista, il calcolatore astuto che duettava con Renzi per rottamare la Camusso e i dinosauri della Cgil: ecco, dov’è finito il Landini proteiforme, inafferrabile e scaltro dei tempi d’oro?
Viene naturale chiederselo. Perché se nell”intervista al Fatto facciamo la tara al linguaggio tonitruante (almeno in questo non è cambiato) e che tanto piace ai talk show nostrani col quale Landini annuncia “la stagione di lotta dei referendum”, in testa, ovviamente, la battaglia per il no alla riforma costituzionale, l’impressione che resta è quella di una ritirata malinconica. Per carità, uno scranno nel board della Cgil è approdo prestigioso per un sindacalista; ma per chi aveva oliato le sue ambizioni con la retorica del cambiamento, giungendo perfino a vagheggiare le primarie per rimuovere le incrostazioni burocratiche e ripristinare un rapporto corretto tra base e vertice, accomodarsi sotto le comode coltri confederali può apparire – ed in effetti è – un controsenso, la cifra di un fallimento politico.
Non solo. È anche una mossa tipicamente da “vecchia politica”, che il Landini di un paio d’anni avrebbe denunciato a pieni polmoni. Giunto in prossimità della scadenza di mandato, il leader della Fiom si trova alle strette: o porta a casa il contratto dei metalmeccanici, viatico indispensabile all’entrata in segreteria e ad una prossima scalata per via interna, o rischia di vedersi relegato ai margini del congresso che si terrà nel 2018, appuntamento clou in casa Cgil da cui usciranno delineati gli equilibri dell’era post Camusso. In realtà l’alternativa per Landini non esiste, come abbiamo visto: per questo ha mantenuto nel corso della lunga trattativa per un profilo basso, per questo non intende andare per il sottile ora che Federmeccanica sembra disposta a rimuovere la pregiudiziale sugli aumenti salariali. Difficile però che la manovra riesca indolore. Landini dovrà spiegare ai suoi come mai tutte quelle innovazioni dipinte fin qui alla stregua di altrettante tentazioni diaboliche – previdenza complementare, sanità integrativa, formazione, produttività – ora possono serenamente transitare nella liturgia vetero – sindacale che la dirigenza ha ammannito per anni ai militanti, rifiutandosi di ratificare gli ultimi due contratti nazionali che proprio su quelle novità erano imperniati. Siccome il centralismo democratico è morto, è lecito pensare che il “contrordine compagni” causerà non pochi mal di pancia.
Ma è altrettanto lecito supporre che la cosa a Landini non importi più di tanto: in casa Fiom potranno sempre consolarsi con il Buscopan della lotta referendaria, ultimo surrogato della Coalizione Sociale da tempo naufragata sugli scogli dell’irrilevanza politica, mentre lui sarà libero di correre incontro al destino. Che magari non avrà i colori forti della Rivoluzione, bensì le tinte pastello della Cooptazione.