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I giovani cervelli italiani in fuga e il concerto stonato della politica

Stefania Giannini

La brutta notizia è una buona notizia: anziché marcire in attesa di un lavoro degno che non arriva, e spesso di un lavoro purché sia, la generazione dei più giovani non se ne sta a guardare. Prende la valigia, che non è più quella di cartone dei nostri poveri, ma dignitosi nonni, e se ne va dall’Italia per far vedere al mondo quanto ha imparato in anni di grande, non di rado eccellente Scuola italiana. E’ ormai da primato la fuga dei cervelli, ma pure di ragazzi che s’impegnano con geniale perseveranza e decidono, quasi sempre col conforto delle loro famiglie, che non intendono più sottostare a un sistema marcio e irriconoscente verso chi vale.

Sono dati impietosi, quelli di “Migrantes”, eppur incoraggianti, perché testimoniano che tanti giovani reagiscono e non hanno paura di rischiare all’estero: dei centomila connazionali che l’anno scorso hanno lasciato il Paese, un terzo ha fra i 18 e i 34 anni d’età. E la metà di questi nuovi emigranti ha meno di cinquant’anni. Uno su due, perciò, se ne va negli anni più importanti per se stesso e per l’Italia.

Lo Stato e le famiglie hanno investito un fiume di denaro per istruire quel ragazzo che fugge, per dare a quella ragazza la marcia in più per farsi ovunque apprezzare. Li formiamo al meglio con enormi sacrifici e poi li costringiamo a volare via, come tante rondini che non faranno più primavera nella loro patria. E’ un delitto che ogni governo e ogni classe dirigente dovrebbero sentire sulla propria coscienza. Perché tutti giurano a turno che cambieranno musica.

Ma a vent’anni non si spreca il domani, aspettando il concerto della politica che non comincia mai. E così buttiamo al vento il futuro dell’Italia, perché in esilio vanno i più bravi e intraprendenti. Lo erano, spesso, anche quei milioni di italiani che da ogni parte e sempre dal Veneto – allora come oggi -, andavano nelle Americhe, in Australia e ovunque fra Ottocento e Novecento. Erano bravi, gli esuli della sofferenza. Erano umili, gli emigranti con studi elementari, talvolta nemmeno, ma determinati. Portavano nel sangue la cultura del lavoro. Portavano nel cuore l’amore della famiglia. Ora quell’addio pieno di nostalgia è diventato un arrivederci senza rimpianti. Se ne vanno delusi e soli.

Oggi non si va più via per sempre: prima o poi i nostri figli rivedranno e alcuni persino torneranno in questa Italia così bella e così mal sistemata, che ha fatto a meno di loro negli anni in cui loro più potevano e volevano fare per Lei.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

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