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Vi racconto i paradossi del Pil

Si narra che Alessandro il Grande, appreso che un suo soldato -il quale aveva il suo stesso nome- si distingueva per le sue ribalderie, gli avesse ordinato imperiosamente di cambiare nome o di cambiare condotta. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la sinistra italiana ha cambiato spesso il   nome ma non la condotta. La sinistra europea, al contrario, ha cambiato spesso la condotta ma non il nome. Il gioco è stato comunque a somma zero. Oggi i partiti socialisti del Vecchio continente si trovano in una terra di nessuno, spiazzati dall’avanzata dei neonazionalismi e dei movimenti populisti. Ora, il tramonto della socialdemocrazia è un’ipotesi altamente plausibile, come la scissione del Pd è più di una semplice congettura. Basta osservare quanto sta accadendo nella campagna referendaria: chi è di centro si sente attratto da altri centri, mentre chi è di sinistra non sa a che santo votarsi.

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Ce la faranno Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan a rispettare i vincoli europei sul deficit? Ce la faranno, soprattutto, a rispettare l’obiettivo dell’aumento di un punto del Pil, ovvero di quello che è universalmente ritenuto il simbolo stenografico della stazza dell’economia? Vedremo. Intanto, ricordiamo qualche aspetto della questione.

L’economista bielorusso Simon Kutznets (1901-1985), ideatore del Pil come lo conosciamo oggi, già nel 1934 avvertiva il Congresso degli Stati Uniti che il benessere di un Paese difficilmente può essere dedotto solo dalla misurazione del suo reddito nazionale. Ad esempio, esso non considerava attività svolte al di fuori del mercato (come il volontariato e il lavoro domestico) e le esternalità negative – sociali e ambientali – del sistema produttivo. Soltanto dal 1990, tuttavia, ipotesi alternative di benessere hanno cominciato a giocare un ruolo rilevante nel dibattito politico. Merito anche dell’indice di sviluppo umano (Isu), elaborato dall’ex ministro delle Finanze pakistano Mahbub ul Haq e adottato dall’Onu, che al Pil affianca altre grandezze come speranza di vita, tassi d’inquinamento e di scolarità, mortalità infantile. Per non parlare dell’indice di “Felicità nazionale lorda”, un concetto (un po’ stravagante) inventato dal sovrano del Bhutan nel 1972, che quantifica le performance delle comunità fedeli ai principi spirituali del buddismo.

L’ultimo tentativo di “riformare” il Pil che ha catturato l’attenzione dei media è stato quello del Presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel 2009 lo affidò – con scarsi risultati – ai premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. Forse pochi ricordano, invece, che quindici anni fa – su impulso del patron di Esselunga Bernardo Caprotti – si costituì un gruppo di ricerca (coordinato da Paolo Savona) per analizzare il nostro Pil voce per voce, per poi paragonarlo a quello di Francia, Spagna, Olanda e Inghilterra.

Le sue conclusioni furono sorprendenti: in termini comparativi, in Italia si viveva meglio di quanto raccontato dai numeri ufficiali. Infatti, le inefficienze pubbliche e private (burocrazia, trasporti, sanità, corruzione, costi energetici) erano registrate e valevano tra il 14 e il 26 per cento del valore totale dei nostri beni e servizi. Al contrario, non erano computati come reddito: lavoro casalingo, non profit, attività sommerse e illegali, pari a circa la sua metà. Da allora le cose sono sicuramente cambiate, ma il reddito da prostituzione in Olanda e – in certa quota parte – l’economia domestica negli Usa vengono ancora calcolati nel prodotto interno lordo, diversamente che da noi. Sono i paradossi del Pil.

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